“Qual è il tuo sogno Kaspar Hauser? Non ne hai? Il mio? Tu
vuoi sapere il mio sogno? Il mio sogno è la fine di tutti i sogni. E questo gli
uomini l’hanno chiamato Dio, tranne che qui su questa isola…ma tu credi che
questa sia un’isola? Questa non è un’isola, qui non ci sono isole, qui non c’è
dentro né fuori, ma il nome Kaspar Hauser è legione strana, straniera…Ma se non
c’è dentro né fuori, da dove cazzo viene fuori lo straniero? Lo capisci perché sei
perseguitato, Kaspar Hauser…tu dormi il sonno del gusto perché il sapore del
gusto l’hai scordato, ma si scorda sempre ed allora la vita non ha né senso né gusto…
Ed allora si sono inventati un’altra vita. Ma se non c’è né dentro né fuori,
dove cazzo può stare un’altra vita? E’ tutto qui. Ed ora.”
(Forse Godot è arrivato.
Forse Godot è arrivato, ma non sappiamo più che cazzo
farcene. A forza di aspettare ci siamo dimenticati perché aspettavamo. Era logico
che sarebbe andata così.
Forse Godot è arrivato, ma non sappiamo cosa sia. Non lo sapevamo
nemmeno prima, dopotutto.
Forse Godot è arrivato e sembra un idiota.
Forse Godot è arrivato, ma sinceramente chissenefrega…
meglio farlo fuori.
ed aspettarne un altro.)
Musica elettronica ed un bianco e nero magnifico, che non è
soltanto una scelta “radical-chic”, ma è perfetto per annullare il tempo ed i
luoghi. Ci troviamo scaraventati su un’ isola che non è un’isola, in mezzo a
pochi personaggi assurdi, ma da quella assurdità ci facciamo cullare.
La melodia techno ci trasporta da un’altra parte. Inizia un
trip sensoriale magnifico, che profuma di libertà in ogni fotogramma. Le
sensazioni sono molteplici ed è difficile metterne insieme i pezzi.
Il bianco e nero ci acceca, la musica techno (composta da
Vitalic) ci sballa.
Davide Manuli, riprende il mito di Kaspar Hauser (http://it.wikipedia.org/wiki/Kaspar_Hauser),
lo stravolge e da vita al suo teatro dell’assurdo. Ecco che Kaspar arriva
trasportato dalle onde. Capelli rasati dalle parti, un enorme ciuffo biondo
platino e tratti androgini (interpretato non per niente dalla bravissima Silvia Calderoni). Ha
scritto sul corpo il proprio nome, indossa pantaloni adidas e soprattutto ha due
enormi cuffie che sembrano trasportarlo in un’altra dimensione, facendo vibrare
il suo corpo ad ogni battito.
“Io sognavo l’eroina – dice il prete – quella che viene e ci
libera” Ed invece è arrivato Kaspar Hauser, che nemmeno parla. Lo sceriffo,
Vincent Gallo, che lo tira fuori dalle onde, prova a prendersene cura e cerca
di insegnargli il mestiere del dj, ma deve proteggerlo da altri strani
personaggi, tra cui la duchessa del (non)posto
ed il Pusher a suo servizio (ancora Vincent Gallo). Nel frattempo un prete
prova ad interrogarlo…
Per il resto mi sembra alquanto inutile parlare della trama,
così come sembra inutile o quantomeno arduo tentare di inserire questo splendido
film/non-film di Davide Manuli in un preciso genere. Surrealismo è la prima
cosa che viene a mente, ma non calza bene a pennello.
Sul fatto che sia Cinema, però, non ne ho dubbi. Cinema coraggioso
che rifiuta una sterile e noiosa narrazione per dedicarsi esclusivamente all’immagine
ed al suono. In senso espressionistico. Immagine e suono che da soli evocano
emozioni.. Perché quella musica elettronica è parte integrante del film ed è
lei a raccontare, è lei ad emozionare ed è lei a farci viaggiare.
Si resta quindi destabilizzati di fronte ad un cinema così
diverso, particolare, ma che tramette un senso incredibile di freschezza.
Si, perché, dicendolo in parole povere e comprensibili, “La
Leggenda di Kaspar Hauser” è proprio una figata. Un film veramente “nuovo” e
difficilmente dimenticabile.
P.S: Vincent Gallo, idolo indiscusso per il sottoscritto,
qui supera davvero se stesso.
__________________________________________
“Manuli crea il paradosso di un vuoto ipersaturo. Una regia
che privilegia la camera fissa e dei carrelli lenti e misurati, la fotografia
levigata in bianco e nero di Tarek Ben Abdallah, le scenografie naturali della
Gallura, le sequenze senza stacchi di montaggio, il minimalismo dei quadri e
l'essenzialità dei costumi, farebbero pensare ad una struttura che si regge
interamente sulla sottrazione (alla Bresson, per farla semplice). Invece, al
contrario, ogni scena si nutre di
un'energia trasbordante, persino barocca – a condizione che, come vuole D'Ors,
lo specifico del barocco sia la vertigine – e
ribollente. È la natura musicale del film a garantirne una costruzione
simile: l'electro-house di Vitalic non è soltanto colonna sonora, ma
figurazione ritmica che impone le proprie modulazioni a tutto il film. In
questo senso, mi pare, andrebbe ricercata la ragione dell'ipnosi nel frastuono
di ripetizioni e variazioni (di dialoghi, di inquadrature, di temi formali),
nell'ossessivo ritorno del non-senso che impone una sospensione di quel
montaggio di secondo grado che è il lavoro mentale dello spettatore. E poiché
non c'è più da capire, non rimane che contemplare. Incantati.
Manuli urla a gran voce le possibilità di un cinema altro,
anarcoide, sregolato, magnetico, libero. Per quel che ne so, potrebbe persino
non essere cinema.” –Giuseppe Fidotta, www.spietati.it
“L’opera di
Manuli vive di una tensione metafisica che ricorda da vicino l’ascesi artistica
di Carmelo Bene o di Eugenio Barba o di Andrej Tarkovskij. Siamo di fronte,
insomma, a un regista dal talento non comune, che ci espone a una scelta
radicale: dimenticare il film ed esperire il cinema. Cioè farci invadere dal
bombardamento di immagini sonore, un flusso che scuote il corpo e desta
un’attenzione consapevole come poteva accadere in certo Bresson (per esempio ne L’argent) o in Ozu o in certo Godard (si pensi ad Alphaville). E’ avvertibile un’attivazione che sollecita
tutti i sensi e sbalza oltre i sensi stessi. Tutto diventa inquietantemente
memorabile. [...] Qualcuno di antico ha descritto in anticipo quest’opera
d’arte che è La leggenda di Kaspar Hauser: “Ecco l’equivalente del suono così
come io come lo intendo. L’attore non esiste più, il sé manca, siamo
nell’abbandono, nella morte della significazione. L’interiorità ha eliminato la
comunicazione. Tra l’attore e lo spettatore non si comunica più. L’interiorità
dell’attore si precipita nell’interiorità dello spettatore. A questo stadio, la
rappresentazione, le parole come volontà, Dio, la grammatica, l’anima, lo
spirito, non esistono più. Sono il mai-detto, il non-detto, che parlano
all’interiorità. Siamo nella sensazione. E infine è il corpo che scompare”.
Questa precisa descrizione dell’opera di Manuli è stata enunciata da Carmelo
Bene, in un’intervista a Thierry Lounas, sui Cahiers du Cinéma, nel 1998,
l’anno in cui usciva il primo film di Davide Manuli, Girotondo, giro intorno al
mondo. Era un passaggio di staffetta, nemmeno ideale. Buona non-visione a
tutti.” -- GIUSEPPE GENNA | l’Unità, 30 maggio 2012