..."Dire la verità,quello che non so,che cerco,che non ho ancora trovato.Solo così mi sento vivo."

lunedì 28 aprile 2014

"LA LEGGENDA DI KASPAR HAUSER" (2012) di Davide Manuli.


“Qual è il tuo sogno Kaspar Hauser? Non ne hai? Il mio? Tu vuoi sapere il mio sogno? Il mio sogno è la fine di tutti i sogni. E questo gli uomini l’hanno chiamato Dio, tranne che qui su questa isola…ma tu credi che questa sia un’isola? Questa non è un’isola, qui non ci sono isole, qui non c’è dentro né fuori, ma il nome Kaspar Hauser è legione strana, straniera…Ma se non c’è dentro né fuori, da dove cazzo viene fuori lo straniero? Lo capisci perché sei perseguitato, Kaspar Hauser…tu dormi il sonno del gusto perché il sapore del gusto l’hai scordato, ma si scorda sempre ed allora la vita non ha né senso né gusto… Ed allora si sono inventati un’altra vita. Ma se non c’è né dentro né fuori, dove cazzo può stare un’altra vita? E’ tutto qui. Ed ora.”


(Forse Godot è arrivato.
Forse Godot è arrivato, ma non sappiamo più che cazzo farcene. A forza di aspettare ci siamo dimenticati perché aspettavamo. Era logico che sarebbe andata così.
Forse Godot è arrivato, ma non sappiamo cosa sia. Non lo sapevamo nemmeno prima, dopotutto.
Forse Godot è arrivato e sembra un idiota.
Forse Godot è arrivato, ma sinceramente chissenefrega… meglio farlo fuori.
ed aspettarne un altro.)

Musica elettronica ed un bianco e nero magnifico, che non è soltanto una scelta “radical-chic”, ma è perfetto per annullare il tempo ed i luoghi. Ci troviamo scaraventati su un’ isola che non è un’isola, in mezzo a pochi personaggi assurdi, ma da quella assurdità ci facciamo cullare.

La melodia techno ci trasporta da un’altra parte. Inizia un trip sensoriale magnifico, che profuma di libertà in ogni fotogramma. Le sensazioni sono molteplici ed è difficile metterne insieme i pezzi.
Il bianco e nero ci acceca, la musica techno (composta da Vitalic) ci sballa.
Davide Manuli, riprende il mito di Kaspar Hauser (http://it.wikipedia.org/wiki/Kaspar_Hauser), lo stravolge e da vita al suo teatro dell’assurdo. Ecco che Kaspar arriva trasportato dalle onde. Capelli rasati dalle parti, un enorme ciuffo biondo platino e tratti androgini (interpretato non per  niente dalla bravissima Silvia Calderoni). Ha scritto sul corpo il proprio nome, indossa pantaloni adidas e soprattutto ha due enormi cuffie che sembrano trasportarlo in un’altra dimensione, facendo vibrare il suo corpo ad ogni battito.
“Io sognavo l’eroina – dice il prete – quella che viene e ci libera” Ed invece è arrivato Kaspar Hauser, che nemmeno parla. Lo sceriffo, Vincent Gallo, che lo tira fuori dalle onde, prova a prendersene cura e cerca di insegnargli il mestiere del dj, ma deve proteggerlo da altri strani personaggi, tra cui la duchessa del  (non)posto ed il Pusher a suo servizio (ancora Vincent Gallo). Nel frattempo un prete prova ad interrogarlo…
Per il resto mi sembra alquanto inutile parlare della trama, così come sembra inutile o quantomeno arduo tentare di inserire questo splendido film/non-film di Davide Manuli in un preciso genere. Surrealismo è la prima cosa che viene a mente, ma non calza bene a pennello.
Sul fatto che sia Cinema, però, non ne ho dubbi. Cinema coraggioso che rifiuta una sterile e noiosa narrazione per dedicarsi esclusivamente all’immagine ed al suono. In senso espressionistico. Immagine e suono che da soli evocano emozioni.. Perché quella musica elettronica è parte integrante del film ed è lei a raccontare, è lei ad emozionare ed è lei a farci viaggiare.

Si resta quindi destabilizzati di fronte ad un cinema così diverso, particolare, ma che tramette un senso incredibile di freschezza.

Si, perché, dicendolo in parole povere e comprensibili, “La Leggenda di Kaspar Hauser” è proprio una figata. Un film veramente “nuovo” e difficilmente dimenticabile.

P.S: Vincent Gallo, idolo indiscusso per il sottoscritto, qui supera davvero se stesso.
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“Manuli crea il paradosso di un vuoto ipersaturo. Una regia che privilegia la camera fissa e dei carrelli lenti e misurati, la fotografia levigata in bianco e nero di Tarek Ben Abdallah, le scenografie naturali della Gallura, le sequenze senza stacchi di montaggio, il minimalismo dei quadri e l'essenzialità dei costumi, farebbero pensare ad una struttura che si regge interamente sulla sottrazione (alla Bresson, per farla semplice). Invece, al contrario, ogni scena si  nutre di un'energia trasbordante, persino barocca – a condizione che, come vuole D'Ors, lo specifico del barocco sia la vertigine – e  ribollente. È la natura musicale del film a garantirne una costruzione simile: l'electro-house di Vitalic non è soltanto colonna sonora, ma figurazione ritmica che impone le proprie modulazioni a tutto il film. In questo senso, mi pare, andrebbe ricercata la ragione dell'ipnosi nel frastuono di ripetizioni e variazioni (di dialoghi, di inquadrature, di temi formali), nell'ossessivo ritorno del non-senso che impone una sospensione di quel montaggio di secondo grado che è il lavoro mentale dello spettatore. E poiché non c'è più da capire, non rimane che contemplare. Incantati.
Manuli urla a gran voce le possibilità di un cinema altro, anarcoide, sregolato, magnetico, libero. Per quel che ne so, potrebbe persino non essere cinema.” –Giuseppe Fidotta, www.spietati.it
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“L’opera di Manuli vive di una tensione metafisica che ricorda da vicino l’ascesi artistica di Carmelo Bene o di Eugenio Barba o di Andrej Tarkovskij. Siamo di fronte, insomma, a un regista dal talento non comune, che ci espone a una scelta radicale: dimenticare il film ed esperire il cinema. Cioè farci invadere dal bombardamento di immagini sonore, un flusso che scuote il corpo e desta un’attenzione consapevole come poteva accadere in certo Bresson (per esempio ne L’argent) o in Ozu o in certo Godard (si pensi ad Alphaville). E’ avvertibile un’attivazione che sollecita tutti i sensi e sbalza oltre i sensi stessi. Tutto diventa inquietantemente memorabile. [...] Qualcuno di antico ha descritto in anticipo quest’opera d’arte che è La leggenda di Kaspar Hauser: “Ecco l’equivalente del suono così come io come lo intendo. L’attore non esiste più, il sé manca, siamo nell’abbandono, nella morte della significazione. L’interiorità ha eliminato la comunicazione. Tra l’attore e lo spettatore non si comunica più. L’interiorità dell’attore si precipita nell’interiorità dello spettatore. A questo stadio, la rappresentazione, le parole come volontà, Dio, la grammatica, l’anima, lo spirito, non esistono più. Sono il mai-detto, il non-detto, che parlano all’interiorità. Siamo nella sensazione. E infine è il corpo che scompare”. Questa precisa descrizione dell’opera di Manuli è stata enunciata da Carmelo Bene, in un’intervista a Thierry Lounas, sui Cahiers du Cinéma, nel 1998, l’anno in cui usciva il primo film di Davide Manuli, Girotondo, giro intorno al mondo. Era un passaggio di staffetta, nemmeno ideale. Buona non-visione a tutti.” -- GIUSEPPE GENNA | l’Unità, 30 maggio 2012




venerdì 25 aprile 2014

"L'APOLLONIDE - SOUVENIRS DE LA MAISON CLOSE" (2011) di Bertrand Bonello


Donne che sembrano fantasmi, ma quei fantasmi allo stesso tempo appaiono così reali, così umani. Sentimenti imprigionati e nascosti sotto una maschera... ne va della propria vita, della propria libertà, anzi della propria illusione di libertà. Tutte le loro speranze sono legate proprio a quella maschera che sono obbligate ad indossare. Ed il bello è che la riacquisizione di sé, della propria identità, avviene esattamente quando quelle donne-fantasmi decidono di coprirsi il volto per essere se stesse.

Una tragica sinfonia, tutta al femminile, collocata in un preciso contesto storico, eppure così “senza tempo” e “senza luogo”, forse universale. Si, perché a guardare bene, a volgere lo sguardo un po' più in profondità, si capisce chiaramente che non è soltanto la storia di un bordello di alta classe. Un film fatto di sentimenti, di grida silenziose. Non sono le ragazze che vivono e lavorano in quel bordello parigino di fine ottocento, ad essere protagoniste del film, ma sono le loro emozioni, le loro paure, le loro speranze, la loro rassegnazione, l'enorme affetto che le lega, sulla base di quel destino condiviso.

Quella vita se la sono scelta loro. Guadagno facile, vitto e alloggio...ma poi ci sono rimaste prigioniere, intrappolate dai debiti, confidando soltanto nell'arrivo di un ricco uomo, capace di liberarle, sposandole. C'è chi come la “piccola” che riesce a scappare prima che sia troppo tardi, chi invece come Clothilde non vede più una via d'uscita. Chi addirittura finirà per morirci là dentro, dopo aver contratto la sifilide.

Tante storie insignificanti di vite insignificanti. Non c'è un personaggio principale. Potrebbe sembrare “l' Ebrea” Madeleine, sfregiata nel volto da un cliente e destinata a vivere il resto della sua vita da “mostro”. Come il Joker, costretta a sorridere per sempre, anche in mezzo alla disperazione. Ma la sua è soltanto una storia. Non sono le individualità ad avere importanza nel film, è tutto l'insieme. Ecco quindi che quella Casa di Tolleranza appare come un essere dotato di vita propria, un magma vivente fatto da tante anime. E noi spettatori in quel magma ci troviamo immersi, in un gioco di specchi, sbalzati in qua e la tra continui flashback, sequenze oniriche e siparietti in cui le nostre “puttane” sono costrette a recitare una parte. Quella della bambola, della geisha, sottoposte ad esaudire le più assurde perversioni dei clienti.

Sono attrici. E la loro vita è un film. E quindi assistiamo ad un film dentro il film. C'è persino un provino per partecipare. Tutto è così tristemente finto, niente sembra reale. Soltanto quando le ragazze si spogliano dei loro trucchi, si svestono e si fanno il bagno, la realtà fa capolino, con tutta quella potente carica di umanità. Ed allora scopriamo che è anche possibile innamorarsi dei clienti...
Per tutti questi motivi, la lunga sequenza della gita al parco, unica girata in esterno, appare nel contesto, di una bellezza sconvolgente. E quel tuffo nel lago trasmette un immenso senso di libertà.
Terribile invece la scena della visita ginecologica, in cui le ragazze appaiono veramente oggetti, private completamente della dignità.
E poi c'è quel finale di una potenza incredibile, la vendetta che finalmente si consuma, ma senza troppo pathos che avrebbe stonato con tutto il resto. Si perché la pellicola procede lenta, pacata. Tutto è controllato. Ma non è fredda come si potrebbe pensare, tutt'altro...

Questi sono i motivi per cui il film mi ha entusiasmato. Poi c'è l'aspetto estetico formidabile. Ogni inquadratura sembra un dipinto, ogni dettaglio è attentamente curato. I costumi sono eccezionali e lo stesso si può dire per la colonna sonora, che giustamente non si limita alla musica del tempo, ma spazia tra vari generi, da Bach al Blues ed è essa stessa parte integrante dell'evolversi delle varie situazioni.
Ancora una volta, pertanto, mi rimane davvero difficile capire perché una pellicola del genere sia stata presa così poco in considerazione e così disprezzata dalla critica...forse non si è voluto provare a spingersi al di sotto della superficie (come accaduto di recente con il meraviglioso Nymphomaniac di Lars Von Trier). La valutazione su Mymovies è ridicola (ma sono gli stessi che hanno dato uno, dico uno, a Post Tenebras Lux di Carlos Reygadas).

Poi sono ben certo di aver colto davvero poco di ciò che il film possiede e per questo rimando alla meravigliosa recensione di Giulio Sangiorgio de “Gli Spietati” (www.spietati.it) , di tutt’altro spessore culturale rispetto alla mia. 
Mi sento quindi un po’ impotente e sono titubante nel dirlo, ma lo voglio dire comunque: questo è un grande film. Così difficile da afferrare, si lascia prendere, poi ti sfugge... da vedere e rivedere. Bellissimo.



“Eppure la maison rimane una prigione, un luogo di non libertà, che Bonello fotografa con precisione: perché le abitanti non vedono la luce dell'esterno, perché i debiti le incatenano, perché, soprattutto, il loro magro orizzonte è socialmente coatto, cieco, aperto all'unico miraggio di un benessere insperato, di un riscatto (letterale) da parte di un signore che le salvi, che le compri, che (non) le liberi. Si soffoca, in L'Apollonide, filmcervello che coincide con un ambiente da cui è quasi impossibile uscire, sinapsi che sono porte e corridoi, neuroni che sono corpi di donne in vendita. Un immaginario chiuso, un film (dunque) circolare, che entra in loop, reitera momenti, cambia prospettive, ricontestualizza i propri frammenti, modula solo variazioni interne («La ripetizione – ricorda citando Brian Eno – è una forma di cambiamento»)." -- Giulio Sangiorgio (http://www.spietati.it)

“Così L'Apollonide si configura sfacciatamente come un'opera sul cinema: ambientata sul finire dell'800, all'alba del cinematografo, strutturata intorno a scene (sociali) in cui recitare, incentrata sui rapporti di potere impliciti nello sguardo, esplicita la sua vocazione nello smaccato casting: i corpi delle donne sono negoziati da interpreti che, nella vita, lavorano come cineasti. Così Noémie Lvovsky è la padrona/regista dell'Apollonide (e in una scena sottopone Pauline/Iliana Zabeth a un provino), Xavier Beauvois, Jacques Nolot, Pierre Léon e Damien Odoul sono i clienti a cui i corpi mercificati si conformano, Pascale Ferran è la voce over che pronuncia le sentenze del libro di Pauline Tornowsky. Ed è un invito. Ed è una sfida. L'obiettivo: un cinema fuori dagli schemi, che rifletta e poi si emancipi dalle strutture che ingabbiano il vedere. Così L'Apollonide è esatto nella ricostruzione e insieme capace di estraniarsene, in grado di restituire identità ai personaggi e abbracciarli in un unico corpo sognante, in un terribile fine collettivo. E mentre  fonde le soggettive visive, mentali, acustiche, il film s'inerpica di fronte ai nostri occhi, rizomatico e sprezzante (musiche contemporanee tra costumi d'epoca), nello spazio e nel tempo, nei corpi e nelle menti. -- Giulio Sangiorgio (http://www.spietati.it)

mercoledì 9 aprile 2014

"NYMPHOMANIAC (VOL. I & VOL. II)" di Lars Von Trier

“Cari tutti, non dico che sia stato facile, ma ora ho capito che non siamo e non saremo mai, simili. Io non sono come voi, che scopate per avere conferme e potete benissimo rinunciare a mettere dei cazzi dentro di voi. Io non sono come voi. Quello che volete voi, è essere riempite. E non importa se da un uomo o da tonnellate di disgustosi cazzi mosci. Non fa alcuna differenza. E io non sono per niente come voi. L'empatia di cui parlate è una bugia perché tutti voi fate parte della polizia morale della società il cui compito è di cancellare la mia oscenità dalla faccia della terra...In modo che la borghesia non si senta offesa. Non sono come voi. Sono una ninfomane e amo ciò che sono. Ma soprattutto amo la mia fica e la mia sporca, lurida lussuria.”

*presenti spoiler

“Forget about love” recita la locandina del film. Ecco, non ci fate caso. Non è vero. Perché Nymphomaniac nasconde amore in ogni sua parte. Certo, non l’amore delle commedie romantiche, ma un amore sincero che è quello per la libertà individuale. L’amore per chi non si merita amore, amore per l’oscenità, amore per tutta quella parte dell’umanità, sconfitta, emarginata, messa da parte, ripudiata, disprezzata. Per tutti quegli sconfitti dalla vita e dalla “terra malvagia” di melancolica memoria. Amore per l’uomo, anzi per la donna, dimostrando ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, l’assurdità di certe accuse di misoginia che troppe volte sono state rivolte al regista.
 Del resto sono sempre stati loro i protagonisti dei suoi film, degli antieroi… gente immorale, ma Von Trier dimostra di amarli, quei suoi personaggi, di volerli difendere. Sorprendentemente direi.

 E’ vero, c’è anche molto odio in questo “Nymphomaniac”. Odio per quella società borghese che decide cosa va bene e cosa va male, cosa è giusto e cosa è giusto e cosa sbagliato, le parole che si possono dire e quelle che sono impronunciabili, chi merita rispetto e comprensione e chi no.
Von Trier non fa sconti e lo sappiamo. E’ “uno stronzo” perché ti obbliga, o quanto meno ci prova a farti vedere le cose da un angolazione diversa. In realtà, paradossalmente (ma anche no), Von Trier “il cattivo” appare forse più “buono” ed onesto della stragrande maggioranza di registi in circolazione. E con questa sua ultima opera, continua con passo deciso il suo percorso di condanna e critica della società, ma lo fa ponendo sempre più attenzione all’umanità, alla gente che in quella società c’è immersa e sta per naufragare, mostrando una sensibilità che ha pochi eguali.
E bisogna essere insensibili (o prevenuti) per non rendersi conto che non siamo di fronte soltanto alla storia di una ninfomane. Il sesso, la ninfomania sono solo tematiche di superficie di quella che appare come una riflessione ben più profonda…

Qui, però urge una premessa che forse avrei dovuto fare prima:
Ritengo inopportuno o quantomeno assurdo parlare dei due Volumi in cui è diviso questo film come di due oggetti separati. E’ vero, sono diversissimi tra loro, quasi sembrano film diversi, ma sono legati indissolubilmente e non hanno senso l’uno senza l’altro. Specialmente il Volume I, non ha ragione di esistere senza la parte successiva.
Perché effettivamente per tutto il Volume I sembra di assistere alla storia di una ninfomane. La nostra Joe, che viene trovata da Seligman distesa per terra in un vicolo buio. Presenta segni di percosse sul volto, puzza di piscio e sembra stremata. Lui la invita a casa e lei gli confessa di essere una peccatrice, una persona riprovevole. Così inizia il racconto di Joe che ripercorre tutta la sua vita, svelando a Seligman il suo rapporto con la sessualità. E lui sembra disposto a difenderla sin da subito.
Da ciò scaturisce una serie di splendidi dialoghi, uno migliore dell’altro, che altro non sono che il dialogo interiore di Von Trier con se stesso. Seligman incarna un lato del regista, Joe un altro… O forse Joe è quello che Von Trier è e Seligman ciò che vorrebbe essere (Seligman di fatto significa “uomo felice”). Oppure l’esatto contrario. Chi può dirlo? Un po’ come era per Justine e Claire in Melancholia.
Il modo, però, in cui Joe racconta la sua vita sessuale è subito spiazzante…

Il sesso viene privato di qualsiasi connotato sensuale, passionale… sembra tutto frutto di un calcolo matematico. Non c’è erotismo. Il racconto è freddo come un trattato anatomico e la lunga sequenza di cazzi rifilatici sembra voler proprio spingere verso questa prospettiva.
Discorsi filosofici, sequenze di Fibonacci durante i rapporti sessuali… la seduzione paragonata alla pesca. Ma c’è spazio allo stesso tempo per la dolcezza delle molte sequenze che vedono Joe assieme al padre, figura eterea… che poi in un capitolo successivo ci viene rivomitata in faccia con estrema spietatezza, in un clima ben diverso da quello colorato ed idilliaco dei primi ricordi della ragazza.
In tutto questo, però, continua a non essere ben chiaro dove il regista voglia andare a parare. Serve allora il volume successivo per rendere tutto più chiaro.

Il sesso diventa ancora più estremo, osceno, perverso.
Ma il sesso è soltanto la punta di dell’iceberg di tutta quella massa di cose che la società provvede a giudicare e quindi fare oggetto di censura e condanna. Von Trier non ci sta, non lo tollera.
Bisogna togliere di mezzo il sesso come lo vuole la morale comune e creare un’apologia dell’oscenità che è un’apologia di tutto ciò che è sbagliato. Per questo dico che è un film pieno d’amore.
Esemplare in questa ottica la scena del “pedofilo” ed il dialogo seguente.

“No, stammi a sentire – attacca Joe -  stiamo parlando di un uomo che ha avuto successo nel reprimere i suoi stessi desideri. Che mai prima d'ora aveva avuto un'esperienza simile, almeno finché non l'ho costretto io. Ha vissuto una vita piena di privazioni e non ha mai ferito nessuno. Credo che sia una cosa ammirevole.”
“Non importa quanto ci provi, ma non ci vedo niente di ammirevole nella pedofilia.” Le risponde Seligman
“Perché stai pensando a quel 5%, circa che fa del male ai bambini. Il restante 95% non pratica al di fuori della propria fantasia. Pensa alla loro sofferenza. La sessualità è una delle forze più grandi dell'umanità. Nascere con una sessualità proibita deve essere un'agonia. Un pedofilo che vive tutta la vita con la vergogna per i suoi desideri, ma che non fa niente per metterli in pratica, si merita una cazzo di medaglia.
Ma c'era un altro motivo per la mia comprensione, che ti appare così misteriosa...Ho visto un uomo che stava portando la mia stessa croce. Solitudine. Eravamo entrambi sessualmente reietti.”

Ecco, forse è la scena più bella che mi sia capitato di vedere al cinema di recente, che può essere presa come manifesto del cinema di Lars Von Trier. Cosa fa Lars? Prende con coraggio un tema scabroso come quello della pedofilia, un tema su cui siamo abituati a schierarci a prescindere, senza se e senza ma e ce lo fa vedere da un’altra angolazione. E’ “provocazione fine a se stessa”? Per me è ben altro… è chiaro segno di sensibilità. E forse così potente Von Trier non lo era mai stato.

Poi si può dire di tutto e di più. Si può stare a discorrere su quanto fosse opportuno spingersi con la telecamera a pochi passi dalle natiche di Charlotte Gainsbourg mentre si fa frustare, oppure mostrarci in primo piano due cazzi neri eretti. Ma mi sembrano discorsi da due soldi di fronte all’immensità di questa opera, di fronte ad una portata simbolica di tale grandezza.
Ed uso il termine “simbolica” perché il racconto di Joe è ben lontano da un taglio documentaristico, malgrado il realismo delle scene. Lo stesso Seligman non ci crede. Troppe coincidenze.

E potremmo anche stare a parlare ancora della grandezza di certe scene, della fotografia a tratti suggestiva, a tratti freddissima…o della colonna sonora magnifica che spazia dall’Heavy metal dei Rammstein a Bach.
Ma l’impressione è che non riusciremmo mai ad inquadrare a pieno questa pellicola, che merita assolutamente di essere riguardata e riguardata ancora.
E’ uno dei migliori film degli ultimi anni. Basta con i discorsi.

Bang!

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