..."Dire la verità,quello che non so,che cerco,che non ho ancora trovato.Solo così mi sento vivo."

giovedì 11 dicembre 2014

"MOMMY" di Xavier Dolan (2014)


In quella parola “Libertà” urlata a squarciagola da Steve mentre corre in mezzo alla strada con il carrello della spesa ci sta dentro tutto il cinema di Xavier Dolan. Un cinema giovane, ribelle, senza limiti. Che urla continuamente, ma da l’impressione di avere ancora fiato, di non aver urlato quanto avrebbe invece voluto fare.

L’energia che sprigiona fuori da un film come “Mommy” è un qualcosa che di recente capita davvero di rado di vedere in sala. Esplode davanti a noi e sentiamo l’onda d’urto che ci attraversa facendoci provare qualsiasi tipo di emozione. Si perché a vedere Mommy si prova davvero di tutto: si ride un sacco, si piange, poi si torna a divertirci, si rimane scandalizzati, si prova rabbia nei confronti dei protagonisti e poi nuovamente una quantità impressionante di affetto. Ci sono momenti in cui tra noi e la psiche dei personaggi sembra esserci un muro, altri in cui l’empatia si fa totale.

Il regista classe '89 si prende tutta la libertà che vuole. Continua a giocare con la telecamera, a sperimentare, a partire dall’insolito formato 1:1 che ci accompagna per quasi tutta la durata del film. In questo senso è lo stesso Dolan dei suoi primi due film, da quanto esordì a 20 anni con quel bellissimo (ma ancora “acerbo”) “Ho ucciso mia madre”, però a questo giro, pur inserendoci ancora tanti elementi autobiografici, riesce a creare un’opera molto più completa a livello di contenuti. Il punto di vista non è più solamente quello del figlio problematico, ma è anche quello della madre. Xavier è cresciuto e si mette dall’altra parte della contesa. Prova ad immedesimarsi con la mamma ed a descrivere quell’amore incondizionato che un genitore prova per un figlio, anche e soprattutto quando non è in grado di dimostrarlo. Ecco allora che riesce a girare e montare quella che è forse una delle scene più belle che mi sia mai capitato di vedere. Il formato si allarga, le immagini diventano sfocate, come bagnate dalle lacrime…siamo ormai nella mente delle mamma che si immagina un futuro normale per il figlio, sapendo bene che non sarà mai possibile.

Molto semplice, infatti, la trama di questo Mommy. Nel Canada di un futuro vicinissimo a noi (il 2015) è stata varata una legge per cui i genitori possono decidere (con una scelta irreversibile) di far internare i figli problematici. In questo contesto il protagonista Steve è un ragazzo che dire problematico è dire poco. Iperattivo, con un importante deficit di concentrazione ed autocontrollo che sconfina nel patologico. Disinibito in tutto e per tutto, incapace di tenere a freno le emozioni, sempre sul punto di esplodere sprigionando fuori tutta la sua rabbia sotto forma di violenza e parolacce a non finire.
E la mamma, Diane, forse è la peggior madre per un figlio di questo tipo. Vedova, senza lavoro, anch’essa immatura, incapace di badare a se stessa, figuriamoci al figlio. Beve, fuma, dice volgarità, si veste in maniera aggressiva, minigonne succinte, trucco pesantissimo. Insieme fanno scintille e non potrebbe essere altrimenti. C’è spazio per le urla disperate e le botte (in scene in cui la recitazione è spinta all’eccesso), ma anche per momenti delicati, di un'incredibile dolcezza. Come quella scena in cui Steve dopo un’accesa discussione tappa la bocca alla madre con la mano, la guarda negli occhi e la bacia confessandogli il proprio amore.
E poi soprattutto c’è il terzo personaggio principale a completare il quadro, forse il più affascinante, sicuramente quello riuscito meglio. Kayla, la giovane vicina di casa, balbuziente ed afflitta da un passato non noto che però l’ha palesemente annientata e continua a tormentarla. E per quello che non riesce più a parlare bene ed ha dovuto lasciare l’insegnamento. Probabilmente ha avuto delle responsabilità nella morte del figlio, ma non ha importanza. Quel che conta è il legame insolito ma profondo che si crea tra i tre personaggi. Il modo in cui tutti e tre crescono. Lui sembra mettere la testa posto, lei riacquista sicurezza e smette di balbettare, la mamma ritrova il lavoro. Ovviamente non finisce così il film perché i problemi non finiscono ed il destino dei protagonisti appare già segnato. Eppure è così bello vederli lottare insieme, per provare a cambiarlo quel destino, per raggiungere un po’  di equilibrio, per ritrovare insieme la felicità.

Al di là della trama “esile”, però, i temi toccati da Dolan sono molti…Anzi, ma quali temi, cosa dico?! Le EMOZIONI toccate da Dolan sono moltissime. Anche aiutandosi con una colonna sonora capace di spaziare tra le malinconiche melodie suonate al pianoforte da Ludovico Einaudi alle note dance di “Blue” degli Eiffel ’65 (Quanti ricorddi!). Da “Vivo per lei” di Bocelli a “White flag” di Dido. Dagli Oasis a Celine Dion, a Lana Del Rey. Quel che ne viene fuori è un film pieno di creatività registica, dalla fotografia splendida, ma allo stesso tempo denso di contenuti, spietato, capace di farti a pezzi emotivamente parlando, che però scorre via leggerissimo con un ritmo che non annoia mai. Un film fresco, frizzante, energico eppure poetico. Potentissimo nel complesso. Fatto da un ragazzo che sembra aver ancora tantissimo da dire e da dimostrare e che, in maniera stavolta decisamente palese, ci tiene a trasmettere un messaggio positivo di speranza ed amore. A modo suo, certo. Facendo storcere la bocca a molti, ma come fai a non amare un film del genere?



"Mommy" è cinema di pura, fragilissima potenza – Samuele Sestieri, “Schermo Bianco” (schermobianco.blogspot.it)



Ma il cinema vissuto come lo vive Dolan, come messa in scena del cuore e dei sentimenti, come un orgasmo che si moltiplica instancabilmente con ogni stacco di montaggio, che irrompe sulla superficie dell’immagine con ogni canzone scelta per il suo valore filmico, non è più cinema, assomiglia paurosamente alla vita. A quella vita che vorremmo ci baciasse in bocca. Certo, Dolan, ancora giovanissimo, già padroneggia alla perfezione il suo registro. La maniera parrebbe essere dietro l’angolo. Ma è il plusvalore di gioia e di felicità che fa tutta la differenza del mondo. Nei film di Dolan si gode. Anche quando la vita inizia a colpire forte e cattiva. Certo, è evidente, lui la vita la ama in quanto possibilità di cinema. Eppure, rispetto ad altri formalisti o manieristi, lui resta dalla parte dei corpi. Non si trasforma in un feticista dell’immagine. Il feticismo di Dolan appartiene ai corpi, ai vestiti, alle voci, ai colori, alle forme possibili della seduzione. Tutto in funzione del godimento. Perché nel godimento c’è ancora speranza. E la speranza è bella da guardare. Non ci sono illusioni nel cinema di Dolan. La bellezza non è facile da conquistare e si trattiene anche meno. Eppure. Questo è il beau combat che vale la pena impugnare. Anche rischiando di spaccarsi la faccia. Quello di Dolan è cinema che tracima come un'officina che lavora a pieno regime. Come un corpo vivo che brucia di vita. Certo: è un metodo, che potrebbe essere maniera domani, ma nessuno guarda l’amante la mattina dopo come se domani dovesse lasciarlo. All’alba lo sguardo che posi sul corpo che giace a fianco al tuo è quello del futuro. Quello della speranza. Piace pensare che Xavier Dolan faccia cinema per una tribù di amanti impegnati a sopravvivere. E a continuare a vivere. Non è (anche) questo il cinema? Xavier Dolan Anyways.” (Giona A. Nazzaro, www.uzak.it)


sabato 22 novembre 2014

"IL SALE DELLA TERRA" di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado. (2014)



Lo sapevo che prima o poi sarebbe accaduto. Ne ero certo. Ormai sono mesi che ho messo in pausa questo blog per motivi personali e la voglia di ricominciare a scrivere di cinema era davvero tanta. Ma aspettavo LUI: quel film che mi avrebbe obbligato a rimettermi a scrivere. Quella visione che mi avrebbe impedito di rimandare. Ecco, finalmente è arrivato… e forse nemmeno me l’aspettavo. E pensare che di bei film di recente ne ho visti tanti, ma niente mi aveva così piacevolmente fatto a pezzi come questo: “Il sale della Terra”, girato di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, dedicato alla vita ed all’opera artistica del fotografo ed antropologo Sebastiao Salgado, autore di migliaia di scatti meravigliosi, che nella sua vita, girando per tutto il mondo ha saputo ritrarre in maniera straordinaria la sofferenza umana, la continua lotta dell’uomo contro il proprio destino, sapendo allo stesso tempo omaggiare e mettere in risalto la bellezza entusiasmante della natura. Un fotografo-pittore, mosso da un potente intento sociale, che ha immortalato il genocidio in Rwuanda, il terribile conflitto nei Balcani, la vita dei contadini del Perù e di quelli della Siberia. Un uomo che con i suoi scatti in bianco e nero ci ha sbattuto in faccia l’orrore della fame e della morte con progetti come “Other Americas”, “Exodus”, “Workers”, “Sahel: the end of the road” ed infine ha saputo omaggiare il pianeta con la raccolta fotografica “Genesis”.

Data la dovuta promessa, tuttavia, non è di Salgado che voglio parlare, ma di questo monumentale documentario a lui dedicato da Wim Wenders e dal figlio Juliano. Buio in sala e la voce narrante ci spiega l’etimologia della parola FOTOGRAFIA. “Disegnare con la luce” … Ed a quel punto cominciano a prendere forma le immagini in un bianco e nero stupendo. Siamo scaraventati nella più grande miniera d’oro del mondo in Brasile, attraverso gli scatti di Salgado e lì comincia il viaggio… di Wenders, di Salgado stesso che dopo la laurea in economia decise di abbandonare con coraggio una promettente carriera e mettersi a girare per il globo per poi mostrare a tutti quella parte del mondo mai vista in occidente. Ma soprattutto comincia il viaggio di noi spettatori. Un’esperienza totalizzante capace di toccare qualsiasi sentimento, qualsiasi emozione… SI sorride, ci si commuove, si rimane terrorizzati. C’è lo sdegno nei confronti di cose che non osavamo immaginare, dei volti scavati dalla fame, negli occhi spenti di chi non riesce nemmeno più a sperare. E poi c’è l’estasi provati di fronte ai paesaggi della Siberia, del deserto etiope.

Wenders ha fatto un lavoro incredibile con l’Immagine. Mischiando fotografie di Salgado a riprese da lui stesso fatto (con una fotografia che talvolta ha poco da invidiare a quella di Salgado), accompagnando sapientemente il tutto con un voice-over che non stanca mai. Talvolta Wenders riprende Salgado nell’atto di fotografare, vediamo ciò che il fotografo ha davanti…gli elementi che comporranno la fotografia ci sono già tutti, ma la foto arriva dopo ed è incredibile rendersi conto di come un immagine statica riesca a racchiudere di più di ciò che c’era prima quando la telecamera riprendeva in movimento.
E  poi ci sono i primi piano sull’uomo Salgado che ci racconta la storia delle sue fotografie ed allo stesso tempo la sua storia. Ci mostrano una persona fiera della propria vita, delle proprie scelte. Che non si pente di ciò che ha fatto, di essere stato un padre assente, sempre lontano dalla famiglia. Che non si vergogna ad ammettere di essere entrato profondamente in crisi dopo il viaggio in Rwuanda, tanto da abbandonare la fotografia per anni ed aver smesso poi di dedicarsi ai conflitti per cominciare a fotografare la natura.

L’immagine e l’uomo. Così riassumerei questo film. L’immagine e l’uomo. Così il cinema riesce ad esprimere tutta la sua potenza. Salgado è sempre stato interessato all’Uomo. Il vero sale della Terra siamo noi: gli uomini con tutte le nostre contraddizioni. Uomini diversi in ogni parte del pianeta, ognuno a combattere la propria lotta. Questo ha sempre voluto raccontare il protagonista e come i migliori registi, al pari di un Bergman o di un Antonioni ha deciso di farlo attraverso quello che è uno degli strumenti più importanti per colpire direttamente al cuore e toccare le corde più profonde dell’animo umano: l’Immagine. Scusate se insisto, ma in un periodo in cui il cinema sembra aver perso l’interesse per l’immagine, eclissandosi dietro la narrazione e l’azione, Wenders attraverso Salgado riesce ad affermare nuovamente la potenza incredibile dell’immagine. Cinema all’ennesima potenza quindi. Finalmente.
Si naufraga in un calderone di emozioni. Di fronte a noi l’infinito. Che è il mondo, che è l’uomo.  



“Quella di Salgado è un'epopea fotografica degna del Fitzcarraldo herzoghiano, pronto a muovere le montagne col suo sogno 'lirico'. Viaggiatore irriducibile, Sebastião Salgado ha esplorato ventisei paesi e concentrato il mondo in immagini bianche e nere di una semplicità sublime e una sobrietà brutale. Interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e accompagnato sul campo dal figlio, l'artista si racconta attraverso i reportages che hanno omaggiato la bellezza del pianeta e gli orrori che hanno oltraggiato quella dell'uomo. Fotografo umanista della miseria e della tribolazione umana, Salgado ha raccontato l'avidità di milioni di ricercatori d'oro brasiliani sprofondati nella più grande miniera a cielo aperto del mondo, ha denunciato i genocidi africani, ha immortalato i pozzi di petrolio incendiati in Medio Oriente, ha testimoniato i mestieri e il mondo industriale dismesso, ha perso la fede per gli uomini davanti ai cadaveri accatastati in Rwanda e 'ricomposti' nella perfezione formale e compositiva del suo lavoro. Un lavoro scritto con la luce e da ammirare in silenzio.” –Marzia Gandolfi.
























  

lunedì 28 aprile 2014

"LA LEGGENDA DI KASPAR HAUSER" (2012) di Davide Manuli.


“Qual è il tuo sogno Kaspar Hauser? Non ne hai? Il mio? Tu vuoi sapere il mio sogno? Il mio sogno è la fine di tutti i sogni. E questo gli uomini l’hanno chiamato Dio, tranne che qui su questa isola…ma tu credi che questa sia un’isola? Questa non è un’isola, qui non ci sono isole, qui non c’è dentro né fuori, ma il nome Kaspar Hauser è legione strana, straniera…Ma se non c’è dentro né fuori, da dove cazzo viene fuori lo straniero? Lo capisci perché sei perseguitato, Kaspar Hauser…tu dormi il sonno del gusto perché il sapore del gusto l’hai scordato, ma si scorda sempre ed allora la vita non ha né senso né gusto… Ed allora si sono inventati un’altra vita. Ma se non c’è né dentro né fuori, dove cazzo può stare un’altra vita? E’ tutto qui. Ed ora.”


(Forse Godot è arrivato.
Forse Godot è arrivato, ma non sappiamo più che cazzo farcene. A forza di aspettare ci siamo dimenticati perché aspettavamo. Era logico che sarebbe andata così.
Forse Godot è arrivato, ma non sappiamo cosa sia. Non lo sapevamo nemmeno prima, dopotutto.
Forse Godot è arrivato e sembra un idiota.
Forse Godot è arrivato, ma sinceramente chissenefrega… meglio farlo fuori.
ed aspettarne un altro.)

Musica elettronica ed un bianco e nero magnifico, che non è soltanto una scelta “radical-chic”, ma è perfetto per annullare il tempo ed i luoghi. Ci troviamo scaraventati su un’ isola che non è un’isola, in mezzo a pochi personaggi assurdi, ma da quella assurdità ci facciamo cullare.

La melodia techno ci trasporta da un’altra parte. Inizia un trip sensoriale magnifico, che profuma di libertà in ogni fotogramma. Le sensazioni sono molteplici ed è difficile metterne insieme i pezzi.
Il bianco e nero ci acceca, la musica techno (composta da Vitalic) ci sballa.
Davide Manuli, riprende il mito di Kaspar Hauser (http://it.wikipedia.org/wiki/Kaspar_Hauser), lo stravolge e da vita al suo teatro dell’assurdo. Ecco che Kaspar arriva trasportato dalle onde. Capelli rasati dalle parti, un enorme ciuffo biondo platino e tratti androgini (interpretato non per  niente dalla bravissima Silvia Calderoni). Ha scritto sul corpo il proprio nome, indossa pantaloni adidas e soprattutto ha due enormi cuffie che sembrano trasportarlo in un’altra dimensione, facendo vibrare il suo corpo ad ogni battito.
“Io sognavo l’eroina – dice il prete – quella che viene e ci libera” Ed invece è arrivato Kaspar Hauser, che nemmeno parla. Lo sceriffo, Vincent Gallo, che lo tira fuori dalle onde, prova a prendersene cura e cerca di insegnargli il mestiere del dj, ma deve proteggerlo da altri strani personaggi, tra cui la duchessa del  (non)posto ed il Pusher a suo servizio (ancora Vincent Gallo). Nel frattempo un prete prova ad interrogarlo…
Per il resto mi sembra alquanto inutile parlare della trama, così come sembra inutile o quantomeno arduo tentare di inserire questo splendido film/non-film di Davide Manuli in un preciso genere. Surrealismo è la prima cosa che viene a mente, ma non calza bene a pennello.
Sul fatto che sia Cinema, però, non ne ho dubbi. Cinema coraggioso che rifiuta una sterile e noiosa narrazione per dedicarsi esclusivamente all’immagine ed al suono. In senso espressionistico. Immagine e suono che da soli evocano emozioni.. Perché quella musica elettronica è parte integrante del film ed è lei a raccontare, è lei ad emozionare ed è lei a farci viaggiare.

Si resta quindi destabilizzati di fronte ad un cinema così diverso, particolare, ma che tramette un senso incredibile di freschezza.

Si, perché, dicendolo in parole povere e comprensibili, “La Leggenda di Kaspar Hauser” è proprio una figata. Un film veramente “nuovo” e difficilmente dimenticabile.

P.S: Vincent Gallo, idolo indiscusso per il sottoscritto, qui supera davvero se stesso.
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“Manuli crea il paradosso di un vuoto ipersaturo. Una regia che privilegia la camera fissa e dei carrelli lenti e misurati, la fotografia levigata in bianco e nero di Tarek Ben Abdallah, le scenografie naturali della Gallura, le sequenze senza stacchi di montaggio, il minimalismo dei quadri e l'essenzialità dei costumi, farebbero pensare ad una struttura che si regge interamente sulla sottrazione (alla Bresson, per farla semplice). Invece, al contrario, ogni scena si  nutre di un'energia trasbordante, persino barocca – a condizione che, come vuole D'Ors, lo specifico del barocco sia la vertigine – e  ribollente. È la natura musicale del film a garantirne una costruzione simile: l'electro-house di Vitalic non è soltanto colonna sonora, ma figurazione ritmica che impone le proprie modulazioni a tutto il film. In questo senso, mi pare, andrebbe ricercata la ragione dell'ipnosi nel frastuono di ripetizioni e variazioni (di dialoghi, di inquadrature, di temi formali), nell'ossessivo ritorno del non-senso che impone una sospensione di quel montaggio di secondo grado che è il lavoro mentale dello spettatore. E poiché non c'è più da capire, non rimane che contemplare. Incantati.
Manuli urla a gran voce le possibilità di un cinema altro, anarcoide, sregolato, magnetico, libero. Per quel che ne so, potrebbe persino non essere cinema.” –Giuseppe Fidotta, www.spietati.it
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“L’opera di Manuli vive di una tensione metafisica che ricorda da vicino l’ascesi artistica di Carmelo Bene o di Eugenio Barba o di Andrej Tarkovskij. Siamo di fronte, insomma, a un regista dal talento non comune, che ci espone a una scelta radicale: dimenticare il film ed esperire il cinema. Cioè farci invadere dal bombardamento di immagini sonore, un flusso che scuote il corpo e desta un’attenzione consapevole come poteva accadere in certo Bresson (per esempio ne L’argent) o in Ozu o in certo Godard (si pensi ad Alphaville). E’ avvertibile un’attivazione che sollecita tutti i sensi e sbalza oltre i sensi stessi. Tutto diventa inquietantemente memorabile. [...] Qualcuno di antico ha descritto in anticipo quest’opera d’arte che è La leggenda di Kaspar Hauser: “Ecco l’equivalente del suono così come io come lo intendo. L’attore non esiste più, il sé manca, siamo nell’abbandono, nella morte della significazione. L’interiorità ha eliminato la comunicazione. Tra l’attore e lo spettatore non si comunica più. L’interiorità dell’attore si precipita nell’interiorità dello spettatore. A questo stadio, la rappresentazione, le parole come volontà, Dio, la grammatica, l’anima, lo spirito, non esistono più. Sono il mai-detto, il non-detto, che parlano all’interiorità. Siamo nella sensazione. E infine è il corpo che scompare”. Questa precisa descrizione dell’opera di Manuli è stata enunciata da Carmelo Bene, in un’intervista a Thierry Lounas, sui Cahiers du Cinéma, nel 1998, l’anno in cui usciva il primo film di Davide Manuli, Girotondo, giro intorno al mondo. Era un passaggio di staffetta, nemmeno ideale. Buona non-visione a tutti.” -- GIUSEPPE GENNA | l’Unità, 30 maggio 2012




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