In quella parola “Libertà” urlata a squarciagola da Steve
mentre corre in mezzo alla strada con il carrello della spesa ci sta dentro
tutto il cinema di Xavier Dolan. Un cinema giovane, ribelle, senza limiti. Che
urla continuamente, ma da l’impressione di avere ancora fiato, di non aver
urlato quanto avrebbe invece voluto fare.
L’energia che sprigiona fuori da un film come “Mommy” è un
qualcosa che di recente capita davvero di rado di vedere in sala. Esplode
davanti a noi e sentiamo l’onda d’urto che ci attraversa facendoci provare
qualsiasi tipo di emozione. Si perché a vedere Mommy si prova davvero di tutto:
si ride un sacco, si piange, poi si torna a divertirci, si rimane
scandalizzati, si prova rabbia nei confronti dei protagonisti e poi nuovamente
una quantità impressionante di affetto. Ci sono momenti in cui tra noi e la
psiche dei personaggi sembra esserci un muro, altri in
cui l’empatia si fa totale.
Il regista classe '89 si prende tutta la libertà che vuole. Continua a
giocare con la telecamera, a sperimentare, a partire dall’insolito formato 1:1
che ci accompagna per quasi tutta la durata del film. In questo senso è lo stesso
Dolan dei suoi primi due film, da quanto esordì a 20 anni con quel bellissimo
(ma ancora “acerbo”) “Ho ucciso mia madre”, però a questo giro, pur inserendoci
ancora tanti elementi autobiografici, riesce a creare un’opera molto più
completa a livello di contenuti. Il punto di vista non è più solamente quello
del figlio problematico, ma è anche quello della madre. Xavier è cresciuto e si
mette dall’altra parte della contesa. Prova ad immedesimarsi con la mamma ed a
descrivere quell’amore incondizionato che un genitore prova per un figlio,
anche e soprattutto quando non è in grado di dimostrarlo. Ecco allora che riesce a girare e montare quella che è forse
una delle scene più belle che mi sia mai capitato di vedere. Il formato si
allarga, le immagini diventano sfocate, come bagnate dalle lacrime…siamo ormai
nella mente delle mamma che si immagina un futuro normale per il figlio,
sapendo bene che non sarà mai possibile.
Molto semplice, infatti, la trama di questo Mommy. Nel
Canada di un futuro vicinissimo a noi (il 2015) è stata varata una legge per
cui i genitori possono decidere (con una scelta irreversibile) di far internare
i figli problematici. In questo contesto il protagonista Steve è un ragazzo che
dire problematico è dire poco. Iperattivo, con un importante deficit di
concentrazione ed autocontrollo che sconfina nel patologico. Disinibito in
tutto e per tutto, incapace di tenere a freno le emozioni, sempre sul punto di
esplodere sprigionando fuori tutta la sua rabbia sotto forma di violenza e
parolacce a non finire.
E la mamma, Diane, forse è la peggior madre per un figlio di
questo tipo. Vedova, senza lavoro, anch’essa immatura, incapace di badare a se
stessa, figuriamoci al figlio. Beve, fuma, dice volgarità, si veste in maniera
aggressiva, minigonne succinte, trucco pesantissimo. Insieme fanno scintille e
non potrebbe essere altrimenti. C’è spazio per le urla disperate e le botte (in
scene in cui la recitazione è spinta all’eccesso), ma anche per momenti
delicati, di un'incredibile dolcezza. Come quella scena in cui Steve dopo un’accesa
discussione tappa la bocca alla madre con la mano, la guarda negli occhi e la
bacia confessandogli il proprio amore.
E poi soprattutto c’è il terzo personaggio principale a
completare il quadro, forse il più affascinante, sicuramente quello riuscito
meglio. Kayla, la giovane vicina di casa, balbuziente ed afflitta da un passato
non noto che però l’ha palesemente annientata e continua a tormentarla. E per quello che
non riesce più a parlare bene ed ha dovuto lasciare l’insegnamento. Probabilmente
ha avuto delle responsabilità nella morte del figlio, ma non ha importanza. Quel
che conta è il legame insolito ma profondo che si crea tra i tre personaggi. Il
modo in cui tutti e tre crescono. Lui sembra mettere la testa posto, lei
riacquista sicurezza e smette di balbettare, la mamma ritrova il lavoro.
Ovviamente non finisce così il film perché i problemi non finiscono ed il
destino dei protagonisti appare già segnato. Eppure è così bello vederli
lottare insieme, per provare a cambiarlo quel destino, per raggiungere un po’ di equilibrio, per ritrovare insieme la
felicità.
Al di là della trama “esile”, però, i temi toccati da Dolan
sono molti…Anzi, ma quali temi, cosa dico?! Le EMOZIONI toccate da Dolan sono
moltissime. Anche aiutandosi con una colonna sonora capace di spaziare tra le
malinconiche melodie suonate al pianoforte da Ludovico Einaudi alle note dance
di “Blue” degli Eiffel ’65 (Quanti ricorddi!). Da “Vivo per lei” di Bocelli a “White
flag” di Dido. Dagli Oasis a Celine Dion, a Lana Del Rey. Quel che ne viene
fuori è un film pieno di creatività registica, dalla fotografia splendida, ma
allo stesso tempo denso di contenuti, spietato, capace di farti a pezzi
emotivamente parlando, che però scorre via leggerissimo con un ritmo che non
annoia mai. Un film fresco, frizzante, energico eppure poetico. Potentissimo
nel complesso. Fatto da un ragazzo che sembra aver ancora tantissimo da dire e
da dimostrare e che, in maniera stavolta decisamente palese, ci tiene a
trasmettere un messaggio positivo di speranza ed amore. A modo suo, certo.
Facendo storcere la bocca a molti, ma come fai a non amare un film del genere?
“"Mommy" è
cinema di pura, fragilissima potenza” – Samuele Sestieri, “Schermo Bianco” (schermobianco.blogspot.it)
“Ma il cinema vissuto come
lo vive Dolan, come messa in scena del cuore e dei sentimenti, come un orgasmo
che si moltiplica instancabilmente con ogni stacco di montaggio, che irrompe
sulla superficie dell’immagine con ogni canzone scelta per il suo valore
filmico, non è più cinema, assomiglia paurosamente alla vita. A quella vita che
vorremmo ci baciasse in bocca. Certo, Dolan, ancora giovanissimo, già
padroneggia alla perfezione il suo registro. La maniera parrebbe essere dietro
l’angolo. Ma è il plusvalore di gioia e di felicità che fa tutta la differenza
del mondo. Nei film di Dolan si gode. Anche quando la vita inizia a colpire
forte e cattiva. Certo, è evidente, lui la vita la ama in quanto possibilità di
cinema. Eppure, rispetto ad altri formalisti o manieristi, lui resta dalla
parte dei corpi. Non si trasforma in un feticista dell’immagine. Il feticismo
di Dolan appartiene ai corpi, ai vestiti, alle voci, ai colori, alle forme
possibili della seduzione. Tutto in funzione del godimento. Perché nel godimento c’è ancora speranza. E la speranza è bella da guardare. Non ci sono illusioni nel cinema di Dolan. La bellezza non è facile da conquistare e si trattiene anche meno. Eppure. Questo è il beau combat che vale la pena impugnare. Anche rischiando di spaccarsi la faccia. Quello di Dolan è cinema che tracima come un'officina che lavora a pieno regime. Come un corpo vivo che brucia di vita. Certo: è un metodo, che potrebbe essere maniera domani, ma nessuno guarda l’amante la mattina dopo come se domani dovesse lasciarlo. All’alba lo sguardo che posi sul corpo che giace a fianco al tuo è quello del futuro. Quello della speranza. Piace pensare che Xavier Dolan faccia cinema per una tribù di amanti impegnati a sopravvivere. E a continuare a vivere. Non è (anche) questo il cinema? Xavier Dolan Anyways.” (Giona A. Nazzaro, www.uzak.it)