..."Dire la verità,quello che non so,che cerco,che non ho ancora trovato.Solo così mi sento vivo."

martedì 30 luglio 2013

"Shame" di Steve Mcqueen (2011)

Badlands you gotta live it every day
Let the broken hearts stand
As the price youve gotta pay”
– Bruce Springsteen, Badlands


A me sinceramente, nei film, piace buttarmici. Si, liberarmi dai pregiudizi, dalle inibizioni, da qualsiasi tipo di freno, dalla paura di affogare. Chiudere gli occhi e tuffarmici, curioso di vedere ciò che accadrà. Molte volte, però, purtroppo, ti tuffi e ti schianti contro un mare finto, fatto di plastica (un po' come Jim Carrey in The Truman Show che sbatte contro il cielo di carta). Questo può accadere o perché il regista non è bravo a creare situazioni credibili, a descrivere i sentimenti, oppure perché le interpretazioni degli attori sono scarse e non c'è proprio verso di entrare in empatia con i personaggi. Ma non è questo il caso. In “Shame” di Steve McQueen, infatti, si riesce veramente ad immergercisi, fino in profondità, rischiando quasi di affogare. Ed io adoro quella situazione.
Quando accade questo, per quanto mi riguarda, si può dire che il regista ha fatto centro.
Tanto di cappello quindi a Steve McQueen che al suo secondo lungometraggio dopo Hunger, è riuscito a dare un'anima a questo film, pur trattando una tematica scomoda e raffigurando un personaggio “insolito” reso però estremamente credibile da un'interpretazione magistrale di Fassbender (provate a vedere i suoi primi piani, per esempio, mentre la sorella canta o durante l'ultimo rapporto sessuale). Un Fassbender che con questa prova si è conquistato un posto nell'olimpo dei migliori attori attualmente in circolazione, capace di reggere un intero film sulle proprie spalle apparendo sicuro e sincero in situazioni per niente semplici.
A discapito quindi di una fotografia gelida, (bellissima tra l'altro) tuta incentrata su toni di blu, grigio e celeste, il film appare vivo e profondo.

Di cosa parla? E' di sicuro un film su una perversione, ma prima di tutto è una splendida raffigurazione di un sentimento forte come la solitudine, quella più straziante, immobilizzante. Fassbender è un erotomane, un uomo ossessionato dal sesso , che per lui rappresenta la sola ed unica via per scappare dai propri fantasmi, da un passato incerto di cui sappiamo pochissimo, ma che comprendiamo essere stato estremamente traumatico ("Non siamo cattive persone. E' solo che veniamo da un brutto posto").  Fassbender corre e scappa da un disagio esistenziale avvolgente. Come in Hunger, anche qui si si trova imprigionato, ma queste sbarre forse sono ancora più resistenti, queste catene fanno ancora più male.
Lo vediamo masturbarsi, scopare in continuazione, raggiungere orgasmi con il volto sofferto e dilaniato dal senso di colpa e dal disprezzo per se stesso. Ma lo vediamo anche non riuscire a fare sesso proprio l'unica volta in cui oltre al desiderio carnale c'era anche del coinvolgimento emotivo (una delle sequenze più angoscianti dell'intera pellicola). Ha un ottimo lavoro e vive in un bellissimo appartamento con una splendida vista sulla metropoli, ma asfissiato dal suo malessere, schiavo del proprio corpo e delle proprie pulsioni, lo vediamo muoversi a stento nel mondo.

Questo inferno, fatto di solitudine non riguarda solamente Brandon, ma anche la sorella Sissy, interpretata da una altrettanto brava Carey Mulligan, anch'essa profondamente triste, incapace di trovare la propria posizione nel mondo, bisognosa di attenzioni. Una ragazza estremamente fragile, con un tentativo di suicidio nel passato, forse più di uno...Tra i due, malgrado le tenere e struggenti suppliche di lei, non c'è mai una vera comunicazione. La dolcezza di Sissy, infatti, si schianta sempre contro quel muro che Brandon si è costruito attorno. E ci si potrebbe davvero scrivere un trattato di psicologia, sul personaggio interpretato da Fassbender, che in alcuni momenti sembra volersi arrendere, crogiolarsi nello schifo, quasi a voler dimostrare a se stesso di essere una merda, mentre in altri frangenti sembra reagire, tentare di dar finalmente una svolta positiva alla propria vita.
In un certo modo, mi ha ricordato il Mickey Rourke di The Wrestler, o i tanti protagonisti della canzoni di Bruce Springsteen, immersi nelle “Badlands” , in bilico tra l'essere sul punto di arrendersi, reagire, sollevarsi e poi fallire ed arrendersi di nuovo.

Per tutta la durata del film, domina un senso di desolazione, mentre sprofondiamo insieme a Brandon in questa claustrofobica discesa negli inferi. La telecamera di McQueen lo accompagna con il fiato sul collo, non gli concede un momento di privacy, ma niente sembra mai eccessivo. Non sembra esserci un gusto per lo scandalizzare fine a se stesso come si trova, purtroppo, in molte altre pellicole. La regia è a tratti virtuosa, ma mai fastidiosa o disturbante. Di sicuro non siamo di fronte a un capolavoro della settima arte, visti i diversi difetti che possiamo trovare (se proprio vogliamo), ma si tratta in ogni caso di un grandissimo film, uno dei migliori degli ultimi anni.
Un film monumentale, potente e sincero, a tratti straziante, ma che con sicurezza e facilità riesce a penetrare il cuore.

Girato in appena 25 giorni, tra l'altro.




“Everybody's got a secret Sonny 
Something that they just can't face 
Some folks spend their whole lives trying to keep it 
They carry it with them every step that they take 
Till some day they just cut it loose 
Cut it loose or let it drag `em down 
Where no one asks any questions 
Or looks too long in your face 
In the darkness on the edge of town “
-- Bruce Springsteen, Darkness on the edge of town

martedì 23 luglio 2013

"The perfect sense" di David MacKenzie (2011)

“Life goes on”




Di solito quando si pensa ad un film apocalittico, viene da pensare ad ad un mega-blockbuster ricco di effetti speciali, azioni, battaglie con gli alieni, macchine e palazzi in fiamme ed ovviamente gli Statti uniti che salvano il pianeta. Ecco, dimenticatevi di tutto ciò. "The perfect sense" è un film apocalittico, fantascientifico, ma è ben altro. Molto di più. Si tratta di una raffinatissima riflessione sull'amore e la condizione umana, fatta con un budget ridotto, regia minimalista, dialoghi essenziali, poche parole ma incisive.

Come in Melancholia di Lars Von Trier, l'elemento fantascientifico è soltanto un pretesto, sfruttato dal regista con uno scopo ben preciso: parlare di amore, in un modo insolito, mai tentato prima. E' innanzitutto, infatti, un film romantico, ricco di intimismo, che si da l'obiettivo di scrutare l'animo umano, analizzarlo nelle sue più recondite particolarità, sezionarlo in modo quasi scientifico, metterne a luce le contraddizioni, (ma anche le infinite possibilità di quella che è una macchina sensazionale, il nostro corpo, la nostra mente).
La trama di questa pellicola, semisconosciuta in Italia, dove non è nemmeno arrivata nelle sale, è semplice: il mondo è invaso da una strana epidemia (priva di fondamenti scientifici), che non si riesce bene ad identificare. Il sintomo iniziale è una profonda tristezza che colpisce indiscriminatamente ogni individuo di qualsiasi classe sociale, a cui fa seguito la perdita completa dell'olfatto. E con esso se ne vanno anche tutti i ricordi collegati a questo senso (l'olfatto, infatti, è strettamente collegato alla memoria, viste le importanti connessioni tra la corteccia olfattiva ed il sistema limbico), ma non fa niente...”Life goes on”: chi non è preda del panico, cerca di andare avanti. Si cerca di valorizzare gli altri sensi... Segue la perdita del gusto, dopo un'iniziale improvviso attacco di fame. Anche a questo giro “Life goes on”... senza olfatto e senza gusto, ormai si va nei ristoranti soltanto per sentire il tintinnio delle posate, il piacevole fruscio del vino versato dentro il bicchiere di cristallo... Chi se ne importa se ormai niente ha più sapore e mangiare farina o caviale non fa più differenza. Il cibo lo si gusta con il tatto, in base alla consistenza, alla sua temperatura...


E' facilmente intuibile che tutto ciò altro non è che una metafora. Non bisogna perciò cercare la razionalità della trama (assurda ed irrealistica), ma vivere il film a mente libera come un esperienza sensoriale. Ben presto ci si rende conto che tutti sensi, prima o poi se ne andranno. L'esito finale dell'epidemia appare ineluttabile, intuiamo la paura, riflettiamo su ciò che abbiamo e che diamo per scontato, ne avvertiamo la grandezza.


I protagonisti del film, interpretati da un bravissimo Ewan McGregor e da una sontuosa Eva Green (con un feeling eccezionale tra i due), sono rispettivamente un affermato chef di Glasgow ed una epidemiologa che sta studiando la malattia. Entrambi con un bel bagaglio di fantasmi dentro l'animo, pensieri nascosti, paura di amare. La storia d'amore si sviluppa in questo scenario oscuro, apocalittico. Mentre si consuma la tragedia mondiale, senza via di scampo, anche il loro rapporto viene sezionato dal regista, attento ad ogni dettaglio. C'è una elevata dose di introspezione psicologica, che fugge dagli stereotipi e dalla banalità di tante commedie romantiche attuali. Tra di loro non si chiamano amore, si chiamano “asshole”, sono due bastardi, ognuno con la sua dose di egoismo e cattiveria, come tutti gli uomini, ma si amano e l'amore è l'unica cosa che veramente ha importanza.
Di cosa possiamo veramente fare a meno? Cosa è indispensabile? Queste sono le domande che si pone il film...
Quando se ne va anche l'udito, ecco la grandissima bravura di MacKenzie che è capace di renderci tutti sordi. Anche noi, dentro il nostro animo urliamo silenziosamente come i protagonisti del film, senza sentire nessun suono emesso... Horror puramente psicologico anche qui.

Il tutto è narrato con toni cupi, scenari in cui predominano il grigio, il bianco ed il nero. Ma che bella fotografia!! L'ambientazione è desolante, ma le musiche, le immagini, riescono a farti apprezzare la bellezza intrinseca nell'esistenza umana, in mezzo alla disperazione. C'è tanta tristezza, è vero, ma anche moltissima dolcezza. In alcune sequenze si raggiungono vertici di lirismo poetico. Alcune magari potevano essere evitate, ma è soltanto un piccolo difetto. Tutto sommato si alternano immagini di follia, panico, violenza, alle scene in camera da letto, molto intime, dove non c'è spazio che per l'amore, con i suoi difetti, le sue contraddizioni. Bellissima la voce fuori campo femminile (stranamente...) della protagonista.

L'ho avvertito come un immenso inno alla vita, ai sentimenti che nessuna epidemia può cancellare.
Il finale, è pura poesia, prima del buio totale.
Non è perfetto, la sceneggiatura non è certo impeccabile e sicuramente non è un film per tutti, ma è senza dubbio un'opera che ti lascia dentro qualcosa di grande. Merita eccome! Pienamente convincente!


P.s: tristemente scandaloso il fatto che non sia stato nemmeno distribuito in Italia...




venerdì 19 luglio 2013

"LANTERNE ROSSE" di Zhang Yimou

“Tutto è rappresentazione, se reciti bene inganni gli altri, se reciti male inganni te stessa, se non sai nemmeno ingannare te stessa non ti restano che i fantasmi…”
“tra gli uomini e i fantasmi, la sola differenza è il respiro…”


Tratto dal romanzo “Mogli e concubine” di Su Tong, “Lanterne rosse” di Zhang Yimou è uno straordinario affresco della condizione femminile nella Cina degli anni 20′…(ma implicitamente costituisce una condanna anche alla società cinese attuale, anche oggi come allora, morbosamente attaccata a delle assurde tradizioni). Una tragica sinfonia in rosso, suddivisa in atti corrispondenti alle varie stagioni, in cui si assiste dall’inizio alla fine della pellicola ad una escalation di disperazione, follia, morte. Con questa pellicola Zhang Yimou ha presentato la propria Cina all’intero mondo, ce l’ha sbattuta in faccia con tutte le sue contraddizioni. Un dramma da camera che non può non ricordare il bellissimo “Sussurri e Grida” di Bergman. Anche qui poche stanze, quattro personaggi femminile ed il colore rosso che con violenza domina le immagini.La protagonista del film è la giovanissima Song Lian, che per fronteggiare la miseria, nella quale è precipitata la sua famiglia dopo la morte del padre, decide di interrompere gli studi ed andare in sposa ad un ricco signore, diventando così una delle quattro mogli (concubine) del nobile Chen. Sin dalla prima inquadratura, siamo catapultati nella sofferenza della giovane ragazza. Il primo piano sui suoi occhi stracolmi di tristezza, non lascia alcuna possibilità di interpretazione. 
Song Lian è disperata, non ha scelta, non ha alternative. La tragedia si consuma già nei suo occhi, nel suo volto che prova ad essere impassibile, ma non ce la fa a celare il dramma personale. La vediamo poi arrivare all’abitazione del padrone e da lì in poi tutto il film si svolge tra le mura di quella casa, così simile ad una prigione. Ognuna delle quattro mogli ha la propria stanza ed una propria serva, ma ogni giorno, soltanto una delle quattro può ambire a passare la notte con il signor Chen. Il rituale è sempre lo stesso: il padrone sceglie con quale concubina dormire ed allora vengono portate le lanterne rosse a quella abitazione e viene offerto un massaggio ai piedi alla signora prescelta. Così quella routine diventa quasi snervante: l’urlo del servo “Laaaanteeerne alla quaarta caasa” è il triste leit motiv di tutto il film. Così come il rumore dei ferri per il massaggio ai piedi, l’unica gentilezza riservata alle signore, che appaiono come delle serve, degli oggetti indifesi al servizio del marito, utili soltanto per il sesso e per dare figli (maschi perché “una femmina non serve a niente”). Quel massaggio diventa tristemente il loro unico scopo, l’unica ragione di vita. 
E’ quindi un dramma soffocante, che si consuma lentamente, tra doppi giochi, falsità ed inganni. Il rosso in questo caso non è il colore del sangue, ma è comunque colore di violenza, una violenza più subdola, psicologica. Le quattro signore sono costrette dalla condizione in cui si trovano a competere tra loro per avere un minimo d’amore e fanno di tutto per prevaricare l’una sull’altra… Vederle architettare piani crudeli soltanto per quel massaggio ai piedi e quelle lanterne in camera, diventa asfissiante anche per lo spettatore. Vediamo, infatti, progressivamente la giovane Song Lian restare imprigionata in questo vortice, la vediamo crollare, diventare anch’essa parte del crudele meccanismo, costretta ad ingannare le altre per sopravvivere.
Bellissimo anche il personaggio della serva di Song Lian, una schiava (quindi di condizione ancora più inferiore, quasi pari allo zero), che sogna di diventare un giorno una concubina e così si rinchiude in camera con le lanterne rosse, chiude gli occhi, alza le gambe e si immagina di ricevere il massaggio ai piedi… Oppure quello della terza signora, forse il personaggio più complesso, ma anche più affascinante, una ex cantante lirica di indole ribelle, libera ed eccentrica. Il suo canto assume i connotati di un stridulo urlo di disperazione e solitudine.
E così ben presto ci accorgiamo che la luce rossa di quelle lanterne non è un simbolo di amore, ma di morte. Comprendiamo che in quella abitazione regna inesorabilmente un clima di odio, veleno ed invidia tra le quattro mogli, tutte in competizione tra loro per ricevere quelle poche attenzioni che vengono loro riservate dal signor Chen, che con un ottima scelta registica di Zhang Yimou non viene mai inquadrato da vicino, quasi a voler rimarcare il totale distacco, lo sentiamo soltanto parlare, senza nemmeno sapere le sue fattezze fisiche. D’altronde non avrebbe alcuna importanza.
Il tutto è narrato con una regia magistrale. Visivamente, è uno splendore. La fotografia infatti ci regala delle immagini stupende, ed assistiamo al contrasto tra le stanze illuminate dalla luce rossa delle lanterne, ed il grigio quasi nero dei muri delle abitazioni, fino ad arrivare al bianco gelido della neve. Ogni primo piano è azzeccato, ogni dialogo è denso di straordinaria sensibilità. Non c’è una musica sbagliata, non c’è un colore fuori posto.
E’ quasi un Horror psicologico. Si vedono solo poche gocce di sangue, ma la violenza, seppur silenziosa e celata, è sempre presente.
Un film che fa riflettere ed emozionare. Che ci fa incazzare, ma anche commuovere. Impossibile non sentirsi in empatia con le quattro signore ed alla fine è anche impossibile persino biasimare i loro comportamenti più malvagi.
Indimenticabile: ti si imprime nella mente e nel cuore e non ti abbandona più.
Menzione d’onore per la straordinaria Gong Li, che in questa pellicola, nel suo ruolo di triste eroina, è veramente una dea.





giovedì 18 luglio 2013

THE MAKER di Christopher Kezelos



Pochissimi minuti di poesia...Bellissima e struggente metafora dell'esistenza umana in uno straordinario cortometraggio in stop-motion, firmato Christopher Kezelos...Emozionante e commovente, sebbene all'inizio possa risultare un po' angosciante. Una strana creatura dalle fattezze di un coniglio, con un libro di istruzioni in mano sta creando qualcosa, mentre una clessidra le ricorda che il tempo passa inesorabile... La vita in 5 di minuti di triste poesia.

... cosa è la vita se non questo? Un libretto delle istruzioni che ci tramandiamo, senza un preciso motivo... il dare vita a nuove creature, tanti bei momenti ma effimeri... poi la fine di tutto ed un nuovo inizio... ed il ciclo riparte.
Merita guardarlo, fidatevi!


qui il video: 

 

"L'isola" di Kim Ki Duk

Disperazione, Solitudine, Amore ed incomunicabilità…


“L’isola”, “Seom” rappresenta forse il punto più alto della filmografia di Kim Ki Duk, ancor prima dei più celebri “Ferro 3” e “Primavera, Estate, Autunno, Inverno e ancora Primavera”, un gradino sopra anche a Bad Guy.


Si tratta di un film estremamente difficile, che può sembrare anche eccessivamente violento, malato, duro, disturbante, ma al contempo appare come un’opera estremamente poetica, grazie agli scenari splendidi, alle musiche dolci e struggenti, agli sguardi che valgono più di ogni parola (ed infatti, come nei migliori film di Kim Ki Duk, ci sono soltanto pochissimi dialoghi. Domina il silenzio, simbolo dell’inesorabile incomunicabilità tra le persone)
Per vedere oltre le scene di raccapricciante e assurda violenza (contro gli uomini e contro la natura), è necessario coglierne i simbolismi. E’ un film che va visto come un quadro, denso di simboli, dipinto meravigliosamente da un regista che ha iniziato la carriera come pittore. Innanzitutto cosa rappresenta l’Isola? Cosa rappresenta quel luogo idilliaco che ci viene presentato, quell’ambiente nebbioso dove da un mare splendido sorgono delle piccole e coloratissime casette galleggianti, costruite sopra delle piccole barche? Sin dall’inizio grazie alle immagini splendide ci troviamo di fronte ai nostri occhi uno scenario simile ad un paradiso, dove sembra dominare la pace assoluta. Un luogo lontano dal mondo, dove è possibile rifugiarsi, dove un’anima sola e disperata può trovare la propria beatitudine. Quel luogo è come la casetta sotto il fiume di Coccodrillo nel film di esordio di Kim Ki Duk, “Crocodile”. Rappresenta un mondo alternativo dove è possibile trovare la felicità, lontano dalla crudeltà del mondo reale. Se in Crocodile, però, un uomo fallito e disperato come Coccodrillo poteva trovare una via di fuga, la sua beatitudine ed il suo mondo, grazie all’allontanamento ed all’evasione, in questo film Kim Ki Duk nega anche questa possibilità.



Non esiste nessun luogo incontaminato, non esiste posto al mondo dove la crudeltà non arriva. Infatti, quelle casette colorate si rivelano ben presto come rifugio per emarginati, fuggitivi, assassini, mariti fedifraghi, ognuno con il suo carico di disperazione, cercando una impossibile fuga. Perché presto sono tutti rintracciati dai loro peccati e nemmeno in quell’ambiente solo apparentemente felice riescono a trovare la pace con se stessi.
Anche qui, quindi, ci è presentata un’umanità disperata e crudele messa in luce dalle scena di inaudita violenza contro la natura: una rana (simbolo della donna) spezzata in due e data in pasto ad uccello (simbolo dell’uomo), lo stesso uccello gettato poi in mare ad affogare rinchiuso nella propria gabbia, un pesce fatto a pezzi, un altro martirizzato con un coltellino da sushi e poi gettato nell’acqua salata ancora vivo. Simbolo di tutti gli uomini, che nonostante un anima torturata e mutilata, continuano a sopravvivere in un mondo a loro ostile.
E’ in questo scenario desolante che si sviluppa la storia d’amore tra i due personaggi principali. La bellissima protagonista Hee-jin è la traghettatrice che offre passaggi dalla terraferma verso le casette colorate, talvolta vende ad essi il proprio corpo, ma passa le giornate in piena solitudine, come spettatrice silenziosa ed invisibile, a guardare l’orizzonte, sperando in quel cambiamento che non arriverà mai. Muta (o meglio incapace di comunicare), sola, disperata. Dopo essere stata maltrattata ed umiliata da un pescatore, si immerge nelle acque come una sirena e riemerge poi come un ninfa diabolica per compiere la propria vendetta. Il protagonista maschile, Hyun-shik, invece è un assassino in fuga che cerca di nascondersi dalla polizia. Ci riesce, ma è tormentato dai rimorsi e tenta il suicidio, infilandosi degli ami da pesca in gola. Sarà Hee-jin a salvarlo ed ad offrirsi a lui, in modo quasi materno per provare a lenire il suo dolore. Il loro è un amore malato, fatto di sadomasochismo, violenza, pochissime parole ma anche passionale, dolce, sincero. Non si parlano ma si amano come in tutti i film di Kim Ki Duk, ognuno a modo suo, con i propri mezzi che la vita gli ha concesso. Lei gli da del cibo, lui ricambia costruendo e regalandole delle sculture con gli ami. Quegli ami che sono simboli di violenza e tortura, ma anche di amore. Poi sarà lei a tentare il suicidio, e sarà lui stavolta ad impedirle di sprofondare, ripescandola dalle acque. I due amanti, infatti, sono proprio come pesci, muti e deboli, che hanno abboccato all’amo e devono soffrire. Caduti nel tranello, possono solo cercare di liberarsi, ma sono destinati a fallire, impotenti di fronte alla crudeltà della vita, del mondo.
Ci sono scene di sesso, ma non sono mai volgari. La scena più erotica del film, del resto, è quella tra due pennelli gialli che manovrati dai due innamorati, sembrano quasi baciarsi e perdersi in un amplesso avvolgente, reso ancora più splendido da una musica ed una fotografia azzeccatissime (sicuramente la scena più bella ed emozionante)… Hee Jin per gelosia arriva anche ad uccidere una prostituta e la getta in mare, legata ad uno scooter, ma come ogni peccato anche questo è destinato inesorabilmente a riemergere dalle onde.
Non c’è lieto fine, non c’è speranza, l’uomo può solo cercare di resistere, sopravvivere.
La vera isola alla fine è l’ “altro” :” L’isola dell’uomo è la donna, quella della donna è l’uomo”,(svela lo stesso Kim Ki-duk). Anche stavolta quindi, l’amore come unico elemento positivo, unica salvezza che impedisce di sprofondare nella più totale disperazione.









martedì 16 luglio 2013

"VITA" ...versi di Camillo Sbarbaro


"Non, Vita, perché tu sei nella notte
la rapida fiammata, e non per questi
aspetti della terra e il cielo in cui
la mia tristezza orribile si placa:
ma, Vita, per le tue rose le quali
o non sono sbocciate ancora o già
disfannosi, pel tuo Desiderio
che lascia come al bimbo della favola
nella man ratta solo delle mosche,
per l'odio che portiamo ognuno al noi
del giorno prima, per l'indifferenza
di tutto ai nostri sogni più divini,
pel non potere vivere che l'attimo
al modo della pecora che bruca
pel mondo questo e quello cespo d'erba,
e ad esso si interessa unicamente,
pel rimorso che sta in fondo ad ogni
vita, d'averla inutilmente spesa,
come la feccia in fondo del bicchiere,
per la felicità grande di piangere,
per la tristezza eterna dell'Amore,
pel non sapere e l'infinito buio...
Per tutto questo amaro t'amo, Vita."
--Camillo Sbarbaro


L'immagine che ho scelto per questi bellissimi versi di Camillo Sbarbaro, tratti da “Pianissimo” è un dipinto di Egon Schiele, “The embrace”, l'abbraccio. Un quadro sensazionale. che ha al centro due amanti in un abbraccio struggente, disperato, in cui le pennellate nervose, secche, tormentante, violente ne mettono in risalto l'angoscia e trasmettono amarezza, ma allo stesso tempo prorompe dal dipinto un amore forte, viscerale, carnale. Odio e amore. Vita e morte. Disperazione con piccoli, solitari, ma potenti sprazzi di felicità. La vita è un dramma, è sofferenza. I due amanti sono soli di fronte a un mondo crudele e cercano in questo meraviglioso abbraccio un modo per resistere. Si respira un'atmosfera di cruda drammaticità, i corpi si uniscono in una stretta dolorosa e commovente. Ciò che emerge però non è una realtà desolante. Non sono un esperto di arte, ma questo quadro insieme alla disperazione mi ha sempre trasmesso un forte desiderio di vivere, malgrado le difficoltà e la sofferenza da cui siamo circondati. Mi sembrava perfetto da associare ai versi di Sbarbaro incentrati proprio sulla contrapposizione amore-odio nei confronti della vita.



lunedì 15 luglio 2013

"Qualcuno volò sul nido del cuculo" di Milos Forman

Ma che cosa vi credete, vacca troia, pazzi? Davvero? Ed invece no, invece no: voi non siete più pazzi della media dei coglioni che vanno in gior per la strada, ve lo dico io. Ma non è possibile... non ce l'avete il coraggio di andare via di qua?


Talvolta non c'è bisogno di trame complesse ed ingegnose, inquadrature originali, movimenti di telecamera degni di nota, simbolismi colti e scenari bellissimi, per creare un film capolavoro. Talvolta basta avere una bellissima storia da raccontare e degli attori bravissimi ad interpretare la loro parte. Niente fronzoli, soltanto emozioni da trasmettere al pubblico dall'inizio fino alla fine del film. 

Vi sono film di fronte ai quali è veramente impossibile restare impassibili, non è neppure necessario avere un certo bagaglio culturale, basta essere uomini con un pizzico di sensibilità. Si, perché ne basta propria poca di sensibilità per amare alla follia "Qualcuno volò sul nido del cuculo" di Milos Forman.
La storia si svolge in un manicomio/ospedale psichiatrico (chiamatelo come volete), dove i pazienti a causa delle pesanti terapie sono ridotti ad uno stato quasi da automa, incapaci di reagire. Di qualcuno sappiamo qualcosa di più, di altri non sappiamo niente, ma sin dalle prime scene di terapia di gruppo in cui ci vengono presentati tutti insieme ci ritroviamo in sintonia, forse in empatia, capiamo la difficoltà della loro situazione. Dentro i muri di quell'ospedale psichiatrico non c'è più posto per la speranza e forse nemmeno per la vita. C'è soltanto una desolante routine, che cancella ogni sogno ed in qualche modo anche la vita.


Poi un giorno, viene ricoverato anche un teppistello di nome Mc Murphy, in arrivo da un campo di lavoro carcerario, interpretato da un Jack Nicholson più straordinario del solito, qui con una delle interpretazioni migliori della sua carriera, che gli è valsa anche l'oscar. Mc Murphy non è pazzo, lo si capisce sin dall'incipit del film, ma viene comunque internato per verificare se lo è o meno e provare al contempo a placarlo, renderlo più docile, più “idoneo” alla società.
Il suo arrivo nel manicomio, sconvolge tutto, da lì in poi comincia la rivoluzione. Si, perché Mc Murphy, non ce la fa ad accettare la propria condizione, senza difendersi, ribellarsi. Soprattutto non vuole arrendersi e non vuole sottostare al regime quasi dittatoriale imposto dallo staff medico/infermieristico.
Il ricovero nell'ospedale psichiatrico non rappresenta per lui la FINE, come è invece per gli altri pazienti, ormai privi di speranza e succubi di una sterile routine. Loro vivono senza credere in loro stessi, senza pensare di avere più niente da dire nella vita, sentendosi incapaci di reagire, completamente disillusi. Protetti dalle mura di quell'ospedale considerano la vita al di fuori di queste, come un pericolo. (e sarà Mc Murphy a far loro capire che la vita è solo una stupenda opportunità, non un pericolo). VIVONO NEL TIMORE, INCATENATI NELLE LORO INSICUREZZE, PRIGIONIERI DI UNO DEI PEGGIOR TIPI DI SOFFERENZA, QUELLA MENTALE.
Mc Murphy invece, riesce a mettere in crisi tutti gli ingranaggi, sconvolge la routine, porta il suo brio, la sua freschezza, la sua energia e così restituisce la vita a tutto l'ambiente. Si oppone alle decisioni della severa infermiera-capo, coinvolge gli altri internati in partite a carte dove si scommettono sigarette, scherza, gioca, urla, canta. Fa capire a tutti gli altri che la loro vita non è ancora finita, che la sofferenza e il disagio possono finire, basta non arrendersi.
McMurphy, infatti, malgrado il ricovero è ancora pieno di vitalità e così progressivamente fa rinascere e tornare in vita anche gli altri pazienti, che non vivevano più, bensì sopravvivevano, sentendosi già morti. Il suo sorriso, il suo essere spontaneamente un inguaribile “casinista”, diventa presto contagioso. I suoi atteggiamenti di ribellione e provocazione, non sono altro che un inno alla vita. E' come un capo rivoluzionario, che da nuove motivazioni e stimoli ai propri seguaci, al proprio popolo e li carica e li spinge verso quella battaglia chiamata vita.
Ma non c'è soltanto il personaggio di Mc Murphy (che è indubbiamente tra i più belli della storia del cinema),  ci sono attorno a lui tantissimi altri personaggi indimenticabili. In primis il capo indiano, maestoso e muto ed il giovanissimo e balbuziente Billy Bibbit che, piuttosto che “pazzo” sembra semplicemente fragile ed insicuro. 


Moltissime le sequenze memorabili. In primis quella della fuga dal manicomio durante l'ora di pausa, in cui Mc Murphy porta tutti a pescare sul fiume (uno spettacolare inno alla libertà). Oppure quella straordinaria, in cui, dopo il divieto imposto dallo staff medico di assistere alla finale di baseball, McMurphy comincia a fare la telecronaca di fronte al televisore spento ed ecco che quel televisore spento, si accende nella mente di tutti i paziente, che entusiasmati cominciano a credere di vedere veramente la partita, grazie alla coinvolgente ed emozionate cronaca fatta da McMurphy. Esultano e li vediamo più felici che mai... (ho postato anche il video, per chi è disposto a "spoilerarsi questa sequenza")


Si tratta di una forte critica nei confronti di un sistema che rinchiude persone bizzarre e cerca di appiattirne la personalità sottoponendole a terapie ed a uno stile di vita che non li cura, ma li annulla rendendoli, più docili, ma molto simili a degli automi. Ci si rende ben presto conto che in questo sistema il cattivo non è certo il teppista McMurphy. Ci si rende conto che la scienza in questo caso non è pienamente dalla parte della ragione, o comunque, al di là delle conclusioni, è spontaneo domandarcelo. Domandarci quanto certe pratiche mediche nei confronti di pazienti malati di mente sono lecite. E' impossibile non domandarsi perchè quel bunker dove è ambientata la storia assomigli più a un carcere che a un ospedale... è impossibile non domandarsi se la lobotomia possa rappresentare effettivamente un cura.
Il film, d'altronde, uscì al cinema in un periodo in cui le condizioni degli ospedali psichiatriche erano molto diverse da quelle attuali (per esempio erano ancora molto diffuse le pratiche dell'elettroshock e della lobotomia, oggi usate sempre più raramente e solo in casi particolari) e per questo la pellicola acquista anche un merito sociale, essendo non soltanto un film emozionante, poetico e struggente, ma anche una forte opera di condanna, pur senza assumere i connotati di un documentario.
E' un film, quindi, che ha il grandissimo pregio di essere al tempo stesso realistico e poetico. Talvolta ci sentiamo quasi parte di un reality ambientato in quell'ospedale psichiatrico, ci sembra di partecipare noi stessi a quelle terapie di gruppo, ci sembra anche a noi di essere in fila per prendere i farmaci, oppure essere insieme a Mc Murphy a giocare a pallacanestro nel campetto recintato fuori dal manicomio.

La cosa straordinaria è che, pur descrivendo la routine il film riesce a non essere ripetitivo o ridondante, a non essere mai noioso, bensì a diventare sempre più coinvolgente. Così, insieme a McMurphy acquistiamo tutti maggiore consapevolezza di noi, ridiamo, ci commuoviamo ed alla fine del film, malgrado l'epilogo tristissimo, riusciamo tutti a riacquistare, proprio come i pazienti dell'ospedale, la nostra forza interiore...
Un film meraviglioso! Da vedere assolutamente.





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