Solitudine soffocante. Desolazione totale. Quella delle “highlands”
scozzesi, di quella stazione di servizio Shell in mezzo al nulla, di Shell
stessa, la protagonista, che in quella stazione di servizio ci abita, così
lontana dal resto del mondo, dalla vita, dalla vitalità.
Il grigio dei paesaggi è il grigio dell’anima.
“Sei bella stasera”. Ogni tanto passa qualcuno. Per mettere
benzina. Poi se ne va.
-“Shell come la stazione di servizio”?
-“No, Shell come l’unica cosa bella che trovate nel mare”.
Ed il cielo è sempre più cupo. Non è che ci sia tutta questa
differenza tra il giorno e la notte. Si sente il rumore del vento. Il tintinnio
della pioggia. Ed il silenzio che ci disturba. Il silenzio della noia, della
vita uguale.
Ma in quel silenzio si riesce ad avvertire il grido di
rabbia di Shell. Un grido silenzioso, certo. Improgionato dentro il corpo,
eppure così palpabile.
“A volte non vediamo nessuno per settimane, ma non importa”.
17 anni, contatti sociali ridotti all’osso, a scuola c’è
andata soltanto nei primi anni di vita. Poi ha vissuto soltanto con il padre.
Lui l’ha istruita, lui soltanto si è preso cura di lei. La madre è morta quando
era piccola…
Fredda, struccata, estraniata, eppure in procinto di
sbocciare finalmente come un fiore, con tutta la sua sensualità.
Desiderosa di libertà. Vogliosa di vivere. Ma incapace di
muoversi, di allontanarsi dal padre epilettico che ha così bisogno di lei.
Incatenata, quindi. Ad un’esistenza che si fa fatica a chiamare vita.
“Ti amo”, le dice il padre. “Ti amo” gli dice lei a sua
volta.
A chi dovrebbe dirlo?
Non c’è azione.
Non c’è pathos.
Solo gesti quotidiani.
La loro lentezza. La loro pesantezza.
La loro inutilità.
Basta un paio di jeans regalati, un nuovo libro lasciato per
sbaglio alla stazione di servizio da parte di uno dei tanti clienti, a scalfire
quella quotidianità così ripetitiva.
Forse la vita può cambiare. Ecco, pertanto, che quei rari
contatti con il resto del mondo, rappresentato soltanto dagli occasionali
automobilisti di passaggio, diventano per shell come ossigeno. La spingono a
confrontarsi con se stessa, con i suoi reali desideri. E così comincia il suo
viaggio di formazione, mentre continua a stare ferma nello stesso luogo.
-“Dovremmo prendere un cane”.
-“Assicurati che sia zoppo, così non può fuggire”.
Bellissimo questo primo lungometraggio di Scott Graham,
vincitore al Torino Film Festival nel 2012.
Film difficile. E soprattutto difficile da descrivere. Quasi
impossibile trasmettere a parole ciò che ti fa provare. Un film diverso.
Minimalismo estremo.
Sembra che Graham voglia ridurre al minimo i sussulti eppure
riesce ad emozionare, grazie ad una fotografia splendida e perfettamente in
linea con lo stato d’animo dei protagonisti ed una sceneggiatura scarna,
essenziale, ma allo stesso tempo potente. Poche frasi, ma capaci di colpire in
profndità.
Quello
di cui ci parla è una storia sbagliata. Di un padre ossessivamente protettivo
nei confronti della figlia. Egoista nel suo voler tenersela tutta per se. Lui
ha soltanto lei. Lei soltanto lui.
Un
amore sbagliato, malato, eppure
comprensibile e quindi incondannabile.
Una
storia di falliti, di antieroi. Di gente sconfitta dalla vita. Definitivamente?
Chi
può saperlo?
Ma menomale
esistono registi che trovano il coraggio di affrontare storie del genere.
Perché
diciamoci la verità, in fondo lo sappiamo tutti bene che le conchiglie non
sono, come dice Shell, le cose più belle che ci sono in mare.
Sono
in realtà piccole cose insignificanti, tutte simili tra loro, gettate in qua e
la dalle onde.
Talvolta
invisibili sulla spiaggia e quindi calpestate.
Fragili
ed incapaci di andare dove vogliono.
ed incapaci di andare dove vogliono.