..."Dire la verità,quello che non so,che cerco,che non ho ancora trovato.Solo così mi sento vivo."

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sabato 29 marzo 2014

"SHELL" (2012) di Scott Graham


Solitudine soffocante. Desolazione totale. Quella delle “highlands” scozzesi, di quella stazione di servizio Shell in mezzo al nulla, di Shell stessa, la protagonista, che in quella stazione di servizio ci abita, così lontana dal resto del mondo, dalla vita, dalla vitalità.

Il grigio dei paesaggi è il grigio dell’anima.

“Sei bella stasera”. Ogni tanto passa qualcuno. Per mettere benzina. Poi se ne va.

-“Shell come la stazione di servizio”?
-“No, Shell come l’unica cosa bella che trovate nel mare”.

Ed il cielo è sempre più cupo. Non è che ci sia tutta questa differenza tra il giorno e la notte. Si sente il rumore del vento. Il tintinnio della pioggia. Ed il silenzio che ci disturba. Il silenzio della noia, della vita uguale.

Ma in quel silenzio si riesce ad avvertire il grido di rabbia di Shell. Un grido silenzioso, certo. Improgionato dentro il corpo, eppure così palpabile.

“A volte non vediamo nessuno per settimane, ma non importa”.

17 anni, contatti sociali ridotti all’osso, a scuola c’è andata soltanto nei primi anni di vita. Poi ha vissuto soltanto con il padre. Lui l’ha istruita, lui soltanto si è preso cura di lei. La madre è morta quando era piccola…

Fredda, struccata, estraniata, eppure in procinto di sbocciare finalmente come un fiore, con tutta la sua sensualità.

Desiderosa di libertà. Vogliosa di vivere. Ma incapace di muoversi, di allontanarsi dal padre epilettico che ha così bisogno di lei. Incatenata, quindi. Ad un’esistenza che si fa fatica a chiamare vita.




“Ti amo”, le dice il padre. “Ti amo” gli dice lei a sua volta.
A chi dovrebbe dirlo?

Non c’è azione.
Non c’è pathos.
Solo gesti quotidiani. 
La loro lentezza. La loro pesantezza. La loro inutilità.

Basta un paio di jeans regalati, un nuovo libro lasciato per sbaglio alla stazione di servizio da parte di uno dei tanti clienti, a scalfire quella quotidianità così ripetitiva.

Forse la vita può cambiare. Ecco, pertanto, che quei rari contatti con il resto del mondo, rappresentato soltanto dagli occasionali automobilisti di passaggio, diventano per shell come ossigeno. La spingono a confrontarsi con se stessa, con i suoi reali desideri. E così comincia il suo viaggio di formazione, mentre continua a stare ferma nello stesso luogo.

-“Dovremmo prendere un cane”.
-“Assicurati che sia zoppo, così non può fuggire”.

Bellissimo questo primo lungometraggio di Scott Graham, vincitore al Torino Film Festival nel 2012.
Film difficile. E soprattutto difficile da descrivere. Quasi impossibile trasmettere a parole ciò che ti fa provare. Un film diverso. Minimalismo estremo.

Sembra che Graham voglia ridurre al minimo i sussulti eppure riesce ad emozionare, grazie ad una fotografia splendida e perfettamente in linea con lo stato d’animo dei protagonisti ed una sceneggiatura scarna, essenziale, ma allo stesso tempo potente. Poche frasi, ma capaci di colpire in profndità.

Quello di cui ci parla è una storia sbagliata. Di un padre ossessivamente protettivo nei confronti della figlia. Egoista nel suo voler tenersela tutta per se. Lui ha soltanto lei. Lei soltanto lui.
Un amore sbagliato,  malato, eppure comprensibile e quindi incondannabile.
Una storia di falliti, di antieroi. Di gente sconfitta dalla vita. Definitivamente?
Chi può saperlo?
Ma menomale esistono registi che trovano il coraggio di affrontare storie del genere.

Perché diciamoci la verità, in fondo lo sappiamo tutti bene che le conchiglie non sono, come dice Shell, le cose più belle che ci sono in mare.
Sono in realtà piccole cose insignificanti, tutte simili tra loro, gettate in qua e la dalle onde.
Talvolta invisibili sulla spiaggia e quindi calpestate.

Fragili
ed incapaci di andare dove vogliono.

  












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