Ancora una volta, come nel caso dello splendido “Daisy Diamond”, è la storia di una giovane madre in difficoltà ad entusiasmarmi e
colpirmi nel profondo. Sono film simili per tematica, questo bellissimo “Kotoko”
di Shinya Tsukamoto e l’altro capolavoro firmato Simon Staho.
Film fatti di
lacrime, sangue, degradazione morale e psichica.
Kotoko ama suo figlio. Forse è l’unica cosa che ama ancora
nella vita. Nonostante i pianti incessanti, le grida che non le danno pace.
Nonostante non si senta all’altezza di essere madre. Nonostante non ne abbia la
forza. Piange il figlio e così piange anche lei.
Ma Kotoko è instabile mentalmente. E’ pazza. Soffre di allucinazioni visive che la portano a vedere in maniera doppia
chiunque la circondi, perché di ognuno vede anche la controparte malvagia che
tenta di aggredirla.
Di conseguenza la sua vita è immersa nel terrore. I fantasmi
che la circondano la ossessionano, la torturano e così si mette a lottare
contro le ombre, a gridare per le strade.
Solo quando canta, non vede doppio. E solo il figlio è sempre
uno soltanto.
Si taglia le braccia non per morire, ma “per vedere se le è
ancora concesso di vivere”. Sono in quei momenti, così intensi, che quelle
lacrime si mischiano al sangue e le immagini si fanno più cupe.
Quella di Kotoko appare pertanto come una progressiva
discesa agli inferi, con un biglietto di sola andata. Prima le viene strappato
il figlio dagli assistenti sociali (ed affidato alla sorella), perché ritenuta
incapace di fare la madre. Poi incontra lo scrittore Tanaka (interpretato dallo
stesso Tsukamoto). Il rapporto amoroso che si crea tra i due è perverso. Lo
scrittore infatti prova a salvarla e si offre di diventare bersaglio dei suoi
istinti violenti. Così Kotoko non si taglia più le braccia, ma comincia a
massacrare di botte Tanaka.
Ma appena inizia a stare meglio, lo scrittore sparisce dalla
sua vita. Per la giovane donna è il colpo del k.o…
Un film che definire disturbante è riduttivo. Inquietante,
straziante, però sempre molto intenso ed a tratti veramente poetico. E’
straordinario il modo in cui Tsukamoto riesce a sviluppare quel mix tra
violenza e dolcezza, tratto distintivo di gran parte del cinema orientale ( e
motivo per cui lo amo così tanto).
Riesce con una regia curatissima e mai banale, ad alternare
sequenze crudeli, amorali e di sofferenza estrema (scendendo anche nello splatter) ad
altre di assoluta dolcezza e poesia. Come i molti momenti in cui Kotoko canta,
oppure quelli in cui gioca sorridente con il figlio. Solo in quei momenti, la
telecamera digitale di Tsukamoto si calma, comincia a muoversi più lentamente,
le riprese si fanno meno frenetiche, i tono cupi lasciano spazio alla luce,
ai colori. E forse è proprio quell’attenzione agli aspetti cromatici che
colpisce di più. C’è spazio per il “bianco vuoto dell’anima”, l’azzurro della
pace, il rosso della passionalità, il blu violetto della malinconia, il verde
che da speranza.
Gli incubi si fanno
più lontani, ma è questione di pochi attimi, perché poi ritornano ancora più
spietati ed opprimenti. Forse la condanna è definitiva e non basta una danza
liberatoria a cambiare il proprio destino.
Si vaga quindi tra il reale e l’onirico, tra i sogni e gli
incubi. Ci si commuove e poi ci si sente pugnalati dritti al cuore in uno
spiazzante caleidoscopio di emozioni.
Fino al finale incredibilmente bello.