..."Dire la verità,quello che non so,che cerco,che non ho ancora trovato.Solo così mi sento vivo."

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sabato 29 marzo 2014

"KOTOKO" (2011) di Shinya Tsukamoto.


Ancora una volta, come nel caso dello splendido “Daisy Diamond”, è la storia di una giovane madre in difficoltà ad entusiasmarmi e colpirmi nel profondo. Sono film simili per tematica, questo bellissimo “Kotoko” di Shinya Tsukamoto e l’altro capolavoro firmato Simon Staho. 
Film fatti di lacrime, sangue, degradazione morale e psichica.

Kotoko ama suo figlio. Forse è l’unica cosa che ama ancora nella vita. Nonostante i pianti incessanti, le grida che non le danno pace. Nonostante non si senta all’altezza di essere madre. Nonostante non ne abbia la forza. Piange il figlio e così piange anche lei.

Ma Kotoko è instabile mentalmente. E’ pazza. Soffre di allucinazioni visive che la portano a vedere in maniera doppia chiunque la circondi, perché di ognuno vede anche la controparte malvagia che tenta di aggredirla.
Di conseguenza la sua vita è immersa nel terrore. I fantasmi che la circondano la ossessionano, la torturano e così si mette a lottare contro le ombre, a gridare per le strade.

Solo quando canta, non vede doppio. E solo il figlio è sempre uno soltanto.

Si taglia le braccia non per morire, ma “per vedere se le è ancora concesso di vivere”. Sono in quei momenti, così intensi, che quelle lacrime si mischiano al sangue e le immagini si fanno più cupe.

Quella di Kotoko appare pertanto come una progressiva discesa agli inferi, con un biglietto di sola andata. Prima le viene strappato il figlio dagli assistenti sociali (ed affidato alla sorella), perché ritenuta incapace di fare la madre. Poi incontra lo scrittore Tanaka (interpretato dallo stesso Tsukamoto). Il rapporto amoroso che si crea tra i due è perverso. Lo scrittore infatti prova a salvarla e si offre di diventare bersaglio dei suoi istinti violenti. Così Kotoko non si taglia più le braccia, ma comincia a massacrare di botte Tanaka.
Ma appena inizia a stare meglio, lo scrittore sparisce dalla sua vita. Per la giovane donna è il colpo del k.o…

Un film che definire disturbante è riduttivo. Inquietante, straziante, però sempre molto intenso ed a tratti veramente poetico. E’ straordinario il modo in cui Tsukamoto riesce a sviluppare quel mix tra violenza e dolcezza, tratto distintivo di gran parte del cinema orientale ( e motivo per cui lo amo così tanto).
Riesce con una regia curatissima e mai banale, ad alternare sequenze crudeli, amorali e di sofferenza estrema (scendendo anche nello splatter) ad altre di assoluta dolcezza e poesia. Come i molti momenti in cui Kotoko canta, oppure quelli in cui gioca sorridente con il figlio. Solo in quei momenti, la telecamera digitale di Tsukamoto si calma, comincia a muoversi più lentamente, le riprese si fanno meno frenetiche, i tono cupi lasciano spazio alla luce, ai colori. E forse è proprio quell’attenzione agli aspetti cromatici che colpisce di più. C’è spazio per il “bianco vuoto dell’anima”, l’azzurro della pace, il rosso della passionalità, il blu violetto della malinconia, il verde che da speranza.

Gli incubi si fanno più lontani, ma è questione di pochi attimi, perché poi ritornano ancora più spietati ed opprimenti. Forse la condanna è definitiva e non basta una danza liberatoria a cambiare il proprio destino.
Si vaga quindi tra il reale e l’onirico, tra i sogni e gli incubi. Ci si commuove e poi ci si sente pugnalati dritti al cuore in uno spiazzante caleidoscopio di emozioni.

Fino al finale incredibilmente bello.














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