"Io non credevo che l'orco sarebbe mai riuscito ad uscire dalla prigione sotterranea"
John Merricke nella stanza in cui è
costretto a vivere, senza poter uscire, sta costruendo il modellino
di una cattedrale, osservandola dalla sua finestra. Il bello è che
di quella cattedrale, dalla sua camera, riesce a vedere soltanto la
punta del campanile. Questo, però, non lo ferma e così costruisce
anche tutto il resto, lavorando soltanto di pura immaginazione. E
crea un modello straordinario, poco importa se in realtà, sotto quel
campanile, la vera cattedrale è ben diversa da come lui la sta
costruendo. Quello è il modo in cui la immagina, in cui la
vorrebbe... Difficile trovare un escamotage migliore, per tradurre in
immagini, il potere dell'immaginazione. Ed ancora più difficile
trovare un immagine più potente di questa per dirci come John
Merricke, sotto quell'aspetto mostruoso, sia in realtà pienamente
umano.
Ecco, soltanto per una sequenza come
questa, così potente in tutta la sua intensità poetica, “The
elephant man” si distingue dalla stragrande maggioranza di film
biografici ispirati a storie vere.
La sua forza sta proprio nelle
immagini. Come quella iniziale, inquietante, puramente “lynchiana”
di una donna che grida a terra, con un elefante in preda all'ira che
si erge di fronte a lei, splendida sequenza che altro non è che un
incubo del protagonista, un uomo deforme, che ogni volta che veniva
presentato nei terribili freak show, doveva ascoltare la falsa storia
di come egli fosse nato da una giovane ragazza che mentre era in
gravidanza era stata assalita da un elefante. E lui se ne convince,
fino a sognarlo, nelle sue notti tempestate da incubi.
Oppure le tante sequenze in cui lo
stesso John Merricke guarda con occhi sognanti e pieni di amore, la
fotografia della madre, della quale ha soltanto ricordi sfumati,
domandandosi perché da una donna così bella è nato un mostro come
lui. “La
gente ha paura di quello che non riesce a capire… ma vede, faccio
fatica anch’io a capire… mia madre era bellissima”
O ancora il suo sguardo, mentre
assiste, nella parte finale del film alla rappresentazione teatrale,
con le immagini dello spettacolo che si sovrappongono in dissolvenza
a quelle del suo volto, dando l'impressione di essere in un altro
mondo, magico, ben lontano dalla sofferenza di tutti i giorni e
trasmettendo bene l'idea di come in quel momento “l'uomo elefante”
si deve essere sentito, proprio come se fosse stato finalmente in un altro
pianeta, un pianeta felice.
Ma chi era l'uomo elefante?
All'anagrafe John Merricke, uomo realmente vissuto
nell'Inghilterra vittoriana, affetto dalla nascita da una terribile
malattia congenita, (la sindrome di Proteo, molto simile alla
neurofibromatosi) che lo rendeva estremamente deforme per via delle
presenza di innumerevoli tumori cutanei ed ossei. L'aspetto grottesco
a cui lo costringeva la malattia, gli impedì di trovare un lavoro ed
un posto nella società e così fu ingaggiato da un presentatore dei
cosiddetti “freak show” per farne di lui uno dei tanti fenomeni
da baraccone.
La sua vita fu quindi un continuo di
umiliazioni e maltrattamenti, fino a quando non si interessò di lui
il medico Frederick Treves (interpretato nel film da Anthony
Hopkins) che riuscì a scorgere, sotto quell'aspetto mostruoso, una
nobile umanità...
Il film racconta di questo, dal momento
in cui per la prima volta Treves incontrò Merricke, e quindi lo
svilupparsi del loro rapporto e di come il dottor Treves divenne per
John, non solo un medico fidato, ma anche un amico ed in un certo
senso un padre, cercando di restituirgli quella dignità umana di cui
era stato privato... Una riflessione sul tema della diversità,
inserita in un preciso contesto storico e sociale.
A questi punti, però, sono costretto
ad ammetterlo: non amo particolarmente i film ispirati a storie vere
e soprattutto non amo i film da cui fuoriesce una morale, una
distinzione precisa tra buoni e cattivi, ma su questo film (l'ultimo
che visto della filmografia di David Lynch), i miei pregiudizi erano
completamente sbagliati. Questo film è diverso.
Quando ti trovi a dover fare un film su
una storia già di per sé bellissima e commovente il rischio
maggiore è proprio quello di creare un film che sia una lagna,
melenso e privo di personalità. “The elephant man” invece,
grazie alla regia impeccabile, alle splendide trovate visive, ad un
bianco e nero perfetto per ricreare l'atmosfera della Londra di fine
diciannovesimo secolo, alla colonna sonora bellissima che accompagna
le immagini, evidenziandone il pathos, diventa un film che brilla di
luce propria, che riesce a coinvolgere emotivamente lo spettatore,
senza mai abbandonarsi al sentimentalismo gratuito.
Come tutti gli altri film di Lynch,
anche questo, infatti, è essenzialmente un film di atmosfera... che
più che raccontare una storia, punta a suscitare emozioni. Un'opera poetica ed
intensa.
Sicuramente meno irrazionale e
personale degli altri suoi film, visto che il soggetto gli era stato
dato da Mel Brooks (che era rimasto estasiato dalla visione di
Eraserhead) con tanto di sceneggiatura già abbozzata, ma nonostante
una trama che non gli permettesse di inventare chi sa cosa, il
giovane pittore David Lynch ce l'ha comunque fatta a darle il
proprio tocco.
Ne è nato così un film che
“stranamente” appare accessibile per tutti, sicuramente il più
fruibile dalla massa tra tutte le opere di Lynch, ma che al contempo
non può deludere nemmeno i più accaniti fan del regista.
Lo ammetto: io preferisco il Lynch più
recente, quello degli ipnotici e controversi “Strade Perdute”,
“Mullholland Dr.” ed “Inland Empire”, ma sono rimasto
altrettanto affascinato anche da questa opera.
L'unico difetto è che fuoriesce una
sorta di “morale”. Il film sembra chiederci per tutta la sua
durata : << Chi è il vero mostro? L'uomo deforme e tutta
quella triste umanità che gli sta attorno, che lo umilia e lo
emargina? >> Lo ripeto, di solito non amo i film così
didascalici che tracciano una così netta linea di demarcazione tra
buoni e cattivi, ma stavolta forse era veramente inevitabile.
Ciò che conta è la magia che pervade
l'intera pellicola, quell'emozione che cresce, in maniera
progressiva, senza mai arrestarsi dall'inizio alla fine, quel
coinvolgimento che non viene mai meno, sino allo splendido finale, di
una profondità davvero rara.
E non ci annoia mai e non ci si
allontana mai da quella Londra sporca e cupa di fine '800. E
soprattutto non smettiamo mai di sentirci, in qualche modo, tutti, un
po' uomini elefanti...
Il Lynch che piace a me: riflessivo, strano, non troppo ingarbugliato. Quando lo becco, questo me lo rivedo sempre volentieri, a differenza, poi, degli ultimi lavori, che per me sono soltanto forma senza un minimo di sostanza ("Inland empire" ma non solo).
RispondiEliminaIo invece amo entrambi i Lynch, sia quello di Inland Empire che quello di "Una storia vera" e "Elephant man"... Ma sono d'accordo che Inland Empire è più facile odiarlo che amarlo! Di sostanza in lavori come "Mullholland dr. invece ce n'è tantissima! Una bellissima dimostrazione di come lavora l'inconscio. Non mi è mai capitato di vedere le dinamiche del sogno descritte così bene... per me la visione fu folgorante e l'ho rivisto un sacco di volte! apprezzandolo ogni volta di più.. un film che sembra "ingarbugliato", senza senso, invece tutto ha perfettamente senso. Lo definirei quasi scientifico. Non me ne volere...
EliminaForse è proprio quest'eccessiva fede nell'inconscio a infastidirmi. Lynch, come Freud del resto, mostra l'inconscio, ma poi lo rinchiude, lo sbarra col Super-Io, che, IMHO, non funziona come vorrebbero gli psicanalisti, anzi come sostengono Deleuze e Guattari ne "L'Anti-Edipo", il Super-Io è fondamentalmente un tiranno, un errore di Freud, che temeva la potenza dell'inconscio. Insomma, alla fine tutto viene filtrato in Lynch, e non c'è, almeno secondo me, un vero e proprio dionisiaco o una libertà espressiva dell'inconscio che riescano a emergere senza filtrazioni. Parere puramente personale, eh.
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